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Osteopati, formazione ed equipollenze. No a pasticci

di Michela Foppiano (Iemo)

10 GIU - Gentile direttore,
ho colto negli autorevoli interventi del Dott. Manta e del Dott. Accarpio, pubblicati dal Suo giornale nei giorni scorsi, un interessante stimolo al dibattito sul ruolo sanitario dei nuovi professionisti. Grazie alle riflessioni derivate da preziosa esperienza medica interdisciplinare, oltre che all’iniziativa dell’Istituto IEMO presso i parlamentari a sostegno della corrispondenza tra ordinamento universitario quinquennale ed equipollenza dei titoli degli osteopati, penso che sia emersa una luce nuova sugli articoli del DDL 1324 in attuale esame istituzionale per la regolamentazione della materia.
 
A personale contributo, mi permetto di citare come fonte il testo dell’art. 4.2 della Norma del Comitato Europeo per la Standardizzazione (CEN) che definisce le competenze essenziali per la pratica dell’Osteopatia: “Gli operatori osteopati condividono un nucleo di competenze di base che guidano nella formulazione della diagnosi, nella gestione e nel trattamento dei pazienti, e che costituiscono il fondamento dell’approccio osteopatico nell’ambito dell’assistenza sanitaria”.
 
La stessa Norma, all’art. 6.2.3., riferendosi ai parametri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che il programma degli studi in Medicina osteopatica “si articola in 4800 ore, delle quali almeno 1000 ore di formazione e pratica clinica osteopatica sotto supervisione”. Inoltre, questa formazione deve soddisfare almeno due dei seguenti tre requisiti: “Non meno di 4800 ore; non meno di 240 crediti ECTS, con un minimo di 60 ECTS al livello del secondo ciclo; una qualifica equivalente al livello di laurea magistrale”.
 
Nella mia funzione di docente presso il corso di Medicina osteopatica autorizzato in Italia, devo tenere ben presente questi e altri requisiti della formazione. E, alla luce della mia esperienza pluriennale, ne attesto senza remore la validità. Posso infatti affermare che lo studente in Medicina osteopatica debba poter perfezionare due competenze fondamentali:
 
1) Le conoscenze culturali scientifiche e mediche che consentano di poter effettuare in ogni momento una diagnosi differenziale e di esclusione a salvaguardia del paziente;

2) Con finalità diagnostica e di intervento, la sottile abilità manuale che consenta di interpretare i dati funzionali e disfunzionali del paziente in termini di assoluta precisione e sottigliezza.
 
Come negli studi musicali la conoscenza della teoria, della cultura e dell’armonia vanno di pari passo con l’allenamento progressivo delle abilità manuali, anche lo studio dell’osteopatia presuppone l’allenamento della manualità più rigorosa in contemporanea all’acquisizione dei dati culturali e metodologici.  Lo studio dell’osteopatia, cioè, prevede imprescindibilmente un periodo di esercitazione clinica associato allo studio teorico, di durata corrispondente alla classificazione europea EQF 7.
 
Pertanto, non ho compreso le ragioni del riferimento al corso di studi triennale durante il dibattito in Senato, né la differenziazione temporale per la decretazione dei titoli equipollenti rispetto all’ordinamento universitario, come definiti nel testo varato in prima lettura. Forse potranno illuminarmi alcuni entusiasti rappresentanti della categoria che, a Congresso, richiamano la necessità di definire “un profilo professionale dell’osteopata” come se non bastassero gli autorevoli documenti europei in base ai quali alcuni Stati hanno già legiferato. Dati, come riferito, suffragati anche in Italia dalla migliore esperienza pedagogica.
 
Ulteriore elemento di nostro attuale utilizzo è il Disciplinare che rendo noto a ulteriore istruzione della discussione in corso. Dibattito che mi auguro porterà tutti i rappresentanti della categoria a sostenere con forza l’equipollenza europea dei titoli italiani, anziché puntare su soluzioni di ripiego originali ma poco affidabili in Sanità.
 
Michela Foppiano
Responsabile del Tirocinio clinico c/o I.E.M.O. Genova

10 giugno 2016
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