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Speciale Ospedali. Intervista a Perucci. "Ecco come misuriamo le loro performance" 

di Ester Maragò

Tutti i "segreti" del Programma nazionale esiti che per la prima volta mette in chiaro i risultati delle cure ospedaliere. A colloquio con il direttore scientifico del sistema di valutazione coordinato da Agenas. "C'è una grande relazione tra volumi di attività ed esiti. Per questo bisogna prevedere standard minimi di attività a tutela della qualità delle cure"

19 OTT - Lo ha ribadito ancora una volta Carlo Perucci, Direttore scientifico del Programma nazionale esiti di Agenas: i dati non servono per realizzare per stilare graduatorie o dare “pagelle” ma per promuovere un’attività di auditing clinico e organizzativo allo scopo di valorizzare l’eccellenza e individuare le criticità. Soprattutto i numeri vanno sempre letti ed interpretati con grande attenzione. In questa intervista ha indicato come sbrogliare la matassa dei tantissimi dati che Agenas ha messo a disposizione degli operatori. Anticipando anche le evoluzioni future del Pne che entrerà con sempre maggiore precisione nelle attività delle strutture italiane.

Dottor Perucci, abbiamo osservato che le strutture più piccole hanno spesso performance migliori di quelle con più alti volumi di attività in particolare se prendiamo in considerazione alcuni indicatori come quello sulla mortalità a 30 giorni per infarto. Questo vuol dire che è preferibile essere curati nei piccoli piuttosto che nei grandi ospedali?
Le valutazioni di Pne devono sempre essere lette ed interpretate con grande attenzione, ricordando che il Programma nazionale esiti serve per supportare attività di auditing clinico e organizzativo e non per stilare graduatorie o dare “pagelle”. Ogni indicatore deve essere interpretato alla luce delle conoscenze scientifiche disponibili. In particolare, i metodi di risk adjustment utilizzati aggiustano, standardizzano, correggono le stime comparative di esito utilizzando informazioni contenute nelle Sdo, sull’età, sulle co-morbilità, come ad esempio la presenza di altre patologie al momento del ricovero o di patologie rilevate nei due anni precedenti a questo.
In particolare, nel caso del rischio di morte a 30 giorni dopo ricovero per infarto miocardico acuto non vengono ancora misurate le condizioni di gravità acuta, cioè quanto è critica la situazione di quel paziente al suo arrivo in ospedale, indipendentemente dalle condizioni di comorbidità cronica o acuta. Inoltre la qualità della codifica è molto eterogenea tra ospedali, ad esempio, per infarti “Stemi” (una condizione molto grave che richiede angioplastica percutanea entro 80-90 minuti), o “non- Stemi” (generalmente meno grave, che comporta diversi approcci e tempi terapeutici). Possiamo quindi avere molte piccole strutture, pubbliche e non, che hanno tassi di mortalità molto più bassi rispetto alla media nazionale semplicemente perché sono state “molto generose” nell’attribuire il codice di infarto miocardico acuto: i rischi di morte possono cioè essere distorti per “diluizione” del denominatore con casi che infarti non sono.
 
Insomma, i metodi del Pne non sono perfetti?
Non esistono in generale metodi “perfetti” che confrontano gli ospedali, in particolare nessun programma sistematico di valutazione nel mondo tiene conto della gravità acuta nel confrontare la mortalità dopo infarto miocardico. In Italia, in alcune Regioni, stiamo già sperimentando sistemi che misurano anche queste variabili, che probabilmente dal prossimo anno saranno inserite nelle Sdo. Nel Lazio invece, dove queste informazioni sono già rilevate sistematicamente da alcuni anni i risultati osservati dimostrano abbastanza chiaramente che le informazioni di gravità acuta sono certo fortemente predittive della morte a trenta giorni dopo Ima, ma essendo queste condizioni molto omogeneamente distribuite tra ospedali, non modificano sostanzialmente il confronto tra ospedali. Questo tuttavia potrebbe essere diverso in altre aree, in altri periodi di tempo.
Per quanto riguarda il rapporto tra esiti delle cure e volume di attività degli ospedali occorre considerare alcune criticità.
 
Ossia?
Le reti “hub & spoke” non solo sono diversamente sviluppate tra regioni ed aree geografiche, ma hanno anche sostanziali differenze progettuali ed operative. Le faccio due esempi estremi per Ima: abbiamo l’Area con efficienti sistemi di emergenza, riferimento rapido a centri hub (alto volume), che fa trattamento urgente, breve degenza, quindi degenza in ospedale spoke. Qui si osserverà un’alta mortalità dei centri hub, cui arrivano casi molto gravi, ed una ridotta mortalità dei centri spoke, che trattano casi meno gravi e/o post trattamento in fase acuta.
C’è poi l’Area con sistemi di emergenza a bassa copertura e ridotta capacità di selezione differenziale, accesso indifferenziato a spoke (basso volume), eventuale trasferimento successivo ad hub: in questo caso si osserverà alta mortalità per Ima in popolazione e bassa mortalità in hub.
Esiste poi il problema della definizione di volume di attività. Fino ad oggi a livello nazionale abbiamo potuto misurare solo i volumi di attività dell’ospedale: ma, a parità di volume dell’ospedale può corrispondere un numero diverso di reparti e percorsi assistenziali. In altre parole ospedali con volumi apparentemente molto alti possono corrispondere in realtà a molte strutture cliniche con bassi volumi. Viceversa ospedali con volumi relativamente piccoli possono corrispondere a una sola struttura clinica.
 
Qualche caso concreto?
Il Policlinico Umberto I di Roma, un grande ospedale con una mortalità a 30 giorni dopo ricovero per infarto molto superiore alla media nazionale ed alti volumi di attività. La prima osservazione da fare è chiedersi se il Policlinico sia veramente un ospedale con grandi volumi di attività. Osservando i dati, questa struttura apparentemente vede tanti infarti, ma di fatto solo una quota relativamente piccola di infartuati segue un percorso diagnostico terapeutico organizzato, gli altri sono “distribuiti” in circa 15 diverse strutture cliniche. Quindi, una quota ragguardevole di pazienti è trattata in reparti a basso volume che non possono garantire standard adeguati di qualità delle cure. Inoltre, utilizzando i dati del programma di valutazione degli esiti del Lazio, che dispone di informazioni di gravità acuta, gli elevati rischi di morte dopo ricovero per infarto in questo ospedale non vengono sostanzialmente modificati: in altre parole l’eccesso di mortalità osservato non dipende da una maggiore gravità della casistica, ma va probabilmente interpretato in termini di organizzazione ed efficacia delle cure.
 
Ma anche sull’indice relativo alle colecistectomie laparoscopiche con degenza post-operatoria entro 3 giorni, considerato un “gold standard”, sembra che i migliori esiti siano conseguiti da strutture che presentano volumi di attività più contenuti rispetto a quelli delle grandi strutture. Come dobbiamo leggere questi risultati?
In realtà anche in questo caso si osserva una relazione tra esito e volumi di attività. Tuttavia questa relazione è “diluita” dal fatto che in alcune strutture, nonostante gli elevati volumi di attività complessivi per ospedale, questi interventi sono distribuiti tra un numero elevato di strutture, tutte a volumi insufficienti di attività. Prendiamo sempre il caso del Policlinico Umberto I di Roma: complessivamente si eseguono oltre 400 colecistectomie laparoscopiche per anno, ma sono state effettuate in almeno 20 diverse chirurgie. E solo una effettua più di 70 interventi in un anno. Con lo stesso volume di colecistectomie laparoscopiche l’Azienda Universitaria Ospedaliera di Parma lavora (bene) con tre soli reparti chirurgici.
Altro esempio eloquente, la mortalità dopo intervento chirurgico per tumore gastrico. Le prove scientifiche dimostrano una diminuzione della mortalità all’aumentare dei volumi chirurgici; linee guida disponibili indicano che ciascun chirurgo dovrebbe fare almeno 20 interventi di questo tipo all’anno. Ma interventi chirurgici su nuovi tumori dello stomaco se ne fanno in più di 600 ospedali in Italia, di cui circa 100 con più di 20 interventi per ospedale. In UK, con una popolazione appena maggiore di quella italiana, solo 184 ospedali effettuano interventi di questo tipo. La mortalità in Italia sembra aumentare nei 5 ospedali, tutti sedi di facoltà di medicina, che realizzano più di 80 interventi per anno: un apparente paradosso. Il motivo sta nella parcellizzazione estrema dei reparti ospedalieri. A Careggi di Firenze i circa 120 interventi totali realizzati sono stati svolti in 7 reparti, e solo tre ne fanno più di 20 l’anno. Di nuovo al Policlinico Umberto I: effettuano circa 80 interventi, ma in 15 diversi reparti, nessuno con almeno 20 interventi.
 
Premesso quindi che il programma deve ancora essere affinato soprattutto rispetto ad alcuni indicatori, sulla possibilità per l’anziano con frattura di femore di essere operato entro le 48 ore dal ricovero, ci sono poche possibilità di errore. E anche in questo caso le grandi strutture segnano il passo.
Su questo indicatore, ma anche su altri, ci sarebbe da mettere la mano sul fuoco: abbiamo un’evidenza robusta sul fatto che esiste una relazione strettissima tra volumi ed esiti. Purtroppo in Italia ci sono grandi strutture che hanno un’attività di pessima qualità, e indiscutibilmente sono concentrate nel Sud. Ad esempio i circa 400 anziani che sono ricoverati all’Ospedale Cardarelli di Napoli hanno una probabilità di essere operati entro 48 ore inferiore al 5%. La media Italiana è del 33%, quella di UK oltre il 75%.
 
Tirando le somme …
Esiste una strettissima relazione tra volumi ed esiti, nel senso che a maggiori volumi di attività corrispondono esiti migliori. Questo è ampiamente documentato dalla letteratura internazionale, non occorre quindi “provarlo” nuovamente negli ospedali italiani. Semmai, i dati Italia sono utili per valutare l’impatto di interventi di razionalizzazione. Quindi, quando osserviamo esiti sfavorevoli in strutture con alti volumi di attività, dobbiamo in realtà andare a verificare se queste siano realmente “grandi”. Spesso, come abbiamo visto, sono ospedali dove convivono molti reparti con bassi volumi di attività. Sono strutture la cui attività è polverizzata al di sotto di qualsiasi soglia ragionevole di efficacia. Nell’interesse della salute dei cittadini c’è da augurarsi che il nuovo “regolamento” sui requisiti degli ospedali per la razionalizzazione della rete ospedaliera che dovrà essere varato, con un accordo Stato Regioni, entro il 31 ottobre, preveda requisiti rigorosi di volumi minimi di attività per ospedale (ad esempio per infarto miocardico o per parti) e, per la maggioranza delle procedure chirurgiche, per unità operative.

19 ottobre 2012
© Riproduzione riservata

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