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Mutazioni del gene NPC1L1: riducono il colesterolo cattivo e il rischio di infarto

di Maria Rita Montebelli

Una ricerca pubblicata sul New England Journal of Medicine evidenzia che le mutazioni del DNA che inattivano la proteina NPC1L1, responsabile dell'assorbimento intestinale del colesterolo, riducono i livelli di colesterolo LDL e il rischio di malattie coronariche fino al 53%. Queste mutazioni 'simulano' l'azione farmacologica dell'ezetimibe, un farmaco anti-colesterolo.  

14 NOV - L’ezetimibe, un farmaco utilizzato per ridurre le concentrazioni plasmatiche di colesterolo LDL, agisce inibendo la funzione della proteina codificata dal gene Niemann–Pick C1-like 1 (NPC1L1), che consiste nel trasportare il colesterolo, introdotto con gli alimenti dal lume dell’intestino, all’interno degli enterociti. Grazie alla sua capacità di ridurre l’assorbimento di steroli del 50% circa, l’ezetimibe riduce dunque le concentrazioni plasmatiche di LDL del 15-20%. Ad oggi non è stato tuttavia ancora dimostrato che l’inibizione dell’NPC1L1, attraverso l’ezetimibe o altri trattamenti, possa ridurre anche il rischio di coronaropatie. Lo studio delle mutazioni inattivanti del gene codificante la proteina target dell’ezetimibe, potrebbe dunque mimare l’azione di questo farmaco ed essere utilizzato per valutarne i potenziali effetti.
 
Una mutazione inattivante può derivare dalla modificazione di una singola base che, introducendo un codone di stop, porta al troncamento prematuro di una proteina (mutazioni nonsense); oppure si può trattare di una inserzione o della delezione di DNA che può provocare mutazioni frameshift o ancora di mutazioni puntiformi che possono alterare lo splicing dell’RNA. Si tratta di mutazioni dette ‘distuggi-proteine’, ‘inattiva-proteina’, ‘perdita-di-funzione’ o null che influenzano marcatamente la funzione delle proteine e sono piuttosto rare nella popolazione generale.
 
I ricercatori del Myocardial Infarction Genetics Consortium, che hanno pubblicato il loro lavoro sul New England Journal of Medicine, sono partiti dall’ipotesi che le mutazioni inattiva-proteine a carico del gene NPC1L1fossero in grado di ridurre sia i livelli di colesterolo LDL, che il rischio di malattie coronariche.
 
Per verificare quest’idea hanno sequenziato le regioni codificanti dell’NPC1L1 in un ampio numero di persone (7.364 pazienti con coronaropatia e 14.728 controlli di origine europea, africana o del sud-est asiatico), individuando così i portatori delle mutazioni inattivanti questo gene e andando quindi a confrontare i portatori eterozigoti delle mutazioni inattivanti con i non carrier, per vedere se ci fossero differenze nei livelli di colesterolo LDL e nel rischio di coronaropatie. I ricercatori hanno inoltre genotipizzato la più frequente mutazione inattivante, la p.Arg406X,  in 22.590 pazienti con coronaropatia e in 68.412 controlli.
 
La ricerca ha consentito di individuare 15 diverse mutazioni inattivanti il gene NPC1L1 (1 persona su 650 è risultata cioè portatrice di una di queste mutazioni). I portatori delle mutazioni inattivanti avevano in media un colesterolo LDL inferiore di 12 mg/dl, rispetto ai non carrier. Ma il dato più rilevante è che lo stato di portatore è risultato associato ad una riduzione relativa del 53% del rischio di coronaropatie.
 
Gli autori concludono dunque che le mutazioni spontanee inibenti la funzione dell’NPC1L1 si associano a livelli plasmatici di LDL inferiori rispetto alla media della popolazione generale e ad un ridotto rischio di coronaropatia. Questo riscontro – affermano gli autori dello studio – aumenta la probabilità che anche  l’inibizione farmacologica della NPC1L1, ottenuta attraverso l’ezetimibe, possa ridurre il rischio di patologie coronariche.
 
Lo studio è stato finanziato dai National Institutes of Health, dal National Human Genome Research Institute (NHGRI) e dal National Heart, Lung, and Blood Institute (NHLBI).
 
Maria Rita Montebelli

14 novembre 2014
© Riproduzione riservata

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