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Emofilia. La cura definitiva potrebbe arrivare dalla terapia genica

di Laura Berardi

Un nuovo trattamento potrebbe curare la malattia, causata da una variazione genetica. trattamento consiste nell’iniettare nell’organismo il virus adeno-associato 8, svuotato del suo corredo genetico e dunque innocuo, ma capace di sostituire i geni che presentano la mutazione da eliminare.

13 DIC - Le persone affette da emofilia B sono portatrici di una variazione genetica che non permette loro di produrre una proteina chiamata fattore IX (FIX), necessaria perché il sangue possa coagulare. Una malattia per la quale ad oggi non esiste cura, e che può essere tenuta sotto controllo tramite infusione regolare della proteina carente. Ma secondo uno studio appena pubblicato sulla rivista New England Journal of Medecine, da oggi potrebbe bastare una sola iniezione, di un virus trattato per veicolare la terapia genica, per liberarsi per sempre della malattia.
Ricercatori dello University College di Londra e del St Jude Children’s Research Hospital di Memphis hanno forse trovato la soluzione grazie alla terapia genica, con un metodo che potrebbe essere usato anche per la cura di altre malattie. Il trattamento consiste nell’iniettare nell’organismo malato, un virus precedentemente trattato per essere inattivo. Il virus, detto adeno-associato 8, svuotato preventivamente del suo corredo genetico e dunque innocuo, è usato come vettore per la sostituzione di geni che presentano la mutazione da eliminare. In particolare, nello studio anglo-americano questa sorta di fattorino genetico è studiato per “infettare” le cellule del fegato con il gene FIX in modo da farlo rimanere nel nucleo stabilmente, cosicché queste possano cominciare a produrre la proteina mancante.
 
Perché proprio la terapia genica? L’emofilia B causata da un difetto genetico che si presenta più spesso negli uomini che nelle donne. Il fattore IX infatti si trova nel cromosoma X, di cui gli uomini posseggono solo una copia (nelle donne dunque il difetto può essere compensato con il gene che si trova sull’altro cromosoma). I ricercatori hanno allora tentato l’approccio genetico su sei pazienti, per testare la sicurezza del trattamento.
Il trial ha coinvolto sei pazienti, curati al Royal Free Hospital di Londra. A questi sono state iniettate dosi diverse del virus: due ne hanno ricevute basse quantità, due medie e due alte. Una singola iniezione ha permesso ai pazienti di produrre piccole quantita del fattore carente, abbastanza da permettere a quattro dei sei pazienti di sospendere il trattamento regolare. Gli altri due hanno dovuto invece continuare a curarsi col trattamento standard, ma con una frequenza di iniezioni di FIX più bassa.
 
Ma quali sono stati i risultati, a livello quantitativo? Normalmente le persone affette da emofilia B hanno livelli della proteina nel sangue più bassi dell’1%. Dopo il trattamento i livelli di FIX raggiunti oscillavano tra il 2 e il 12%. In particolare, il primo paziente curato ha mantenuto livelli superiori al 2% per più di 16 mesi, mentre uno dei pazienti trattati con dosi maggiori ha presentato percentuali oscillanti tra l’8 e il 12% per 20 settimane. I pazienti con i risultati migliori, hanno continuato a produrre da soli la proteina carente fino a 22 mesi dopo l’iniezione.
Solo un paziente, dopo una prima buona risposta, ha visto riscendere i valori. “Abbiamo attribuito questo insuccesso al fatto che ci fosse già precedentemente un’infezione in atto”, ha spiegato Edward G. D. Tuddenham, direttore del Centro di Emofilia al Royal Free Hospital. “Aveva dunque il sistema immunitario attivato e ciò ha fatto sì che il virus, seppur ‘buono’, sia stato debellato troppo velocemente. Ma il paziente è uno scienziato, anche lui, un geologo, e l’ha presa con filosofia. Dice che lui s’è sottoposto al trial solo per amore della scienza”, ha scherzato il medico.
 
Chiaramente saranno necessari ulteriori test per avere la sicurezza che il trattamento sia efficace e innocuo per la salute. Bisognerà sottoporre più pazienti al trattamento, monitorarli per più tempo e controllare eventuali effetti negativi. “Un problema che si ha di solito con la terapia genica è che si vanno ad inserire geni in posizioni random in ogni cromosoma, il che talvolta può scombinare il funzionamento di altri geni”, ha spiegato Amit Nathwani, ricercatore dello University College che ha coordinato lo studio. “Il virus adeno associato 8 invece riesce a evitare questo tipo di problema, perché di solito si posizione al di fuori dei cromosomi. Nonostante questo i pazienti devono essere monitorati per evitare complicazioni. In particolare abbiamo visto nei test sui topi che c’è una piccola possibilità che a seguito dell’iniezione si possano sviluppare tumori al fegato”.
 
Nonostante la ricerca sia ancora ai primi stadi ha già suscitato l’entusiasmo della comunità scientifica. Katherine Ponder, della Washington University School of Medicine, ha definito lo studio come una “vera pietra miliare, perché è il primo che riesce ad attivare a lungo termine e a livelli significativi a livello terapeutico l’espressione di una proteina carente in alcuni individui”. La ricercatrice non ha nascosto dunque l’eccitazione per la ricerca, che potrebbe presto tradursi in applicazioni anche per altre malattie che derivano dalla carenza di alcune proteine fondamentali. “Se l’approccio dovesse rivelarsi sicuro sotto tutti i punti di vista potrebbe sostituire del tutto le scomode e costose terapie proteiche che usiamo su un gran numero di pazienti affetti da patologie diverse”, ha concluso.
 
Laura Berardi

13 dicembre 2011
© Riproduzione riservata

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