Gentile direttore,
ho preso in prestito la prima parte del titolo della lettera a tre medici (Jennifer L. Wiler, Nir J. Harish e Richard D. Zane) che il 20 dicembre del 2017 hanno pubblicato un intervento dal titolo “Do Hospitals Still Make Sense? The Case for Decentralization of Health Care”, su NEJM Catalyst Innovations in health care delivery, una rivista digitale del Gruppo del New England Jounal of Medicine. Il sottotitolo dell’intervento era “Il futuro è qui: spostare l’assistenza dall’ospedale a casa e nella comunità” ( The future is here: moving care out of the hospital and into the home and community).
L’intervento da cui ho rubato il titolo viene da una sanità molto diversa dalla nostra come quella USA e da un periodo che precede il Covid, ma è significativo di un autorevole approccio innovativo, come nello spirito della rivista, rispetto al ruolo dell’ospedale nella rete dei servizi sanitari: “La crescita esponenziale della sanità digitale e virtuale, lo sviluppo di tecnologie avanzate sempre più radicate nella comunità e il trasferimento di parte dell’assistenza per acuti a livello ambulatoriale crea l’opportunità di passare da un sistema sanitario fatto di grosse strutture centralizzate a una assistenza erogata in strutture più piccole, più rapide e più convenienti in cui l’assistenza sanitaria diventa più accessibile, più sostenibile, più personale e più vicina a dove vivono le persone, e cioè la loro casa.”
Altrettanto autorevolmente il caporedattore di Lancet Richard Horton ha scritto lo scorso anno un pezzo dal titolo “Primary health care is not enough“ (L’assistenza sanitaria primaria non è abbastanza) in cui si afferma che l’attuale preoccupazione quasi esclusiva sulla assistenza primaria condanna milioni di persone alla malattia, al dolore e alla morte. E conclude che questo fallimento è insopportabile. Queste affermazioni si riferiscono alla salute nel mondo e soprattutto ai paesi più poveri, ma vengono buone per ricordare che l’assistenza specialistica degli ospedali gioca tuttora in tutti i sistemi sanitari un ruolo fondamentale nella tutela della salute. Richard Horton prende spunto dalla assistenza oncologica, che non a caso anche in Italia è caratterizzata da un forte gap tra Nord e Sud, un gap che riguarda in modo importante l’assistenza ospedaliera.
Ovviamente non c’è alcun dibattito in corso tra il NEJM e Lancet sul peso da dare agli ospedali rispetto alla assistenza primaria, ma i due interventi che ho citato mi sono utili per ricordare che anche nelle riviste scientifiche ai massimi livelli si discute del ruolo degli ospedali con punti di vista molto diversi. Questo mi porta a fare qualche riflessione su alcuni recenti interventi qui su Qs a proposito degli ospedali del Ssn e quindi del Dm 70. Mi riferisco in particolare ai due interventi di Ivan Cavicchi e di Alessandro Giustini, alla cui lettura rimando perché le loro articolate posizioni sconsigliano una sintesi, almeno da parte mia. Quello che li accomuna è la “condanna” del Dm 70. Cavicchi afferma che “L’unica cosa che questo ministro vuole fare è assecondare il dm 70 cioè rassegnarsi a un destino dell’ospedale declinante ritenuto ineludibile quando non lo è”, mentre Giustini scrive che “si leggono grandi apprezzamenti al Dm 70 che contiene la piena coerenza con gli errori di impostazione per le attività ospedaliere degli anni passati”. Cito questi due interventi perché recenti e autorevoli e perché rappresentano un punto di vista prevalente almeno qui su Qs: in Italia servono più posti letto e in generale “più ospedale”. Piuttosto che ripetere le considerazioni sul tema che ho già scritto qui su Qs tante volte, preferisco limitarmi a proporre ancora una volta un modo diverso di trattare “la questione ospedale”.
Insomma tutti uniti contro il Dm 70. Per fortuna non proprio tutti.
Claudio Maria Maffei
Coordinatore Tavolo Salute Pd Marche