Colangite Biliare Primitiva (CBP): si ponga più attenzione a parametri biochimici e di outcome
di Pietro Invernizzi e altri
29 FEB -
Gentile Direttore,mi rivolgo a Lei come esperto clinico ed in rappresentanza degli esperti italiani dell’area terapeutica dell’epatologia con l’obiettivo di portare all’attenzione una questione di rilevanza clinica nella gestione delle patologie rare di natura autoimmune.
Nell’ambito delle malattie rare autoimmuni una patologia con cui io ed i miei colleghi ci troviamo coinvolti quotidianamente è la Colangite Biliare Primitiva (CBP), una patologia che coinvolge i dotti biliari del fegato e che spesso viene diagnosticata tardivamente a causa della sua natura insidiosa e dalla mancanza di specifici sintomi iniziali. Una volta diagnosticata, se non trattata adeguatamente, c’è il rischio che la stessa possa progredire in cirrosi ed insufficienza epatica con conseguente necessità di eseguire un trapianto di fegato come unica possibilità terapeutica.
Nell’ultimo ventennio, tuttavia, è stato fatto un progresso significativo per il trattamento della CBP. Questo miglioramento è avvenuto grazie al lavoro di collaborazione tra ricercatori, pazienti ed industria che ha portato allo sviluppo di nuovi farmaci con la capacità di rallentare la progressione della malattia dando una speranza di vita migliore per le migliaia di pazienti affetti da CBP.
Il miglioramento dal punto di vista clinico, che si riflette in una migliore qualità di vita per i pazienti, è stato osservato grazie alla presenza di dati clinici provenienti dagli studi registrativi ed in aggiunta dai dati di real-world-evidence, prodotti e raccolti anche grazie al lavoro scientifico di molti centri epatologici italiani rappresentativi di tutte le realtà regionali.
Tutti i pazienti affetti da CBP sono trattati in prima linea con acido ursodesossicolico, ma per fortuna da alcuni anni abbiamo potuto aggiungere in seconda linea l’acido obeticolico nei pazienti con PBC refrattari alla terapia standard con acido ursodesossicolico. Ad oggi lo sviluppo di questo ed altri possibili farmaci per la malattia si basa sulla dimostrazione di significativi miglioramenti nei marcatori biochimici del fegato, considerati buoni surrogati della reale capacità dei farmaci di ridurre e bloccare la progressione della malattia. La lenta progressione della malattia, rende difficile, se non impossibile, valutare la risposta di possibili farmaci valutando la reale riduzione della mortalità, come per altre patologie epatiche ed extraepatiche; pertanto, i marcatori biochimici, come gli esami ematici epatospecifici, rappresentano dei parametri utili ed ampiamente validati per valutare la progressione della malattia e quindi l’efficacia delle terapie.
Tali considerazioni sono valide certamente per la CBP e le altre malattie rare autoimmuni, ma rappresentano un punto di valutazione e discussione importante per tutte le malattie rare, laddove, in virtù delle caratteristiche delle patologie stesse e dell’esiguità del numero di pazienti che ne sono affetti, marcatori biochimici rappresentano validi endpoint da considerare. Inoltre, per molte delle malattie rare diventa difficile avere la disponibilità di dati clinici provenienti da studi randomizzati controllati, pertanto l’analisi di dati provenienti dalla pratica clinica, registri pazienti, database sanitari, studi osservazionali, correttamente raccolti e validati rappresenta spesso l’unica fonte di informazioni da poter valutare l’outcome dei pazienti.
E’ auspicabile avviare tavoli di dialogo tra le varie parti, clinici, ricercatori, associazioni pazienti, regolatori e policy maker perché la questione sulla considerazione di outcome per le malattie rare basata su endpoint biochimici e su un uso più sistematico e significativo della real-world-evidence, possa essere tenuta in considerazione come strumento valido per la valutazione del beneficio per i pazienti e l’assessment delle terapie.
Nelle malattie rare, tra cui quelle ad eziologia autoimmune, la comunità scientifica non ha molta scelta per gestire i pazienti e non può correre il rischio di non poter avere soluzioni terapeutiche che permettano di curare nel migliore dei modi e più precocemente possibile pazienti affetti da patologie complesse e di difficile gestione.
Pertanto, la comunità di esperti da me rappresentata chiede e si mette a disposizione nel voler discutere e valutare come, accanto a solidi dati clinici di efficacia quali il rallentamento e lo stop della progressione di malattia, possano essere presi in considerazione parametri biochimici e di outcome (solidi surrogati di efficacia), raccolti in maniera rigorosa e validati da studi di real-world-evidence che rappresentano oggi lo strumento più attendibile per misurare la pratica clinica.
E’ necessario ed urgente che i decisori politici ed i regolatori sanitari interagiscano con i tutti i professionisti del settore e considerino le evidenze scientifiche e i dati di real-world evidence nella valutazione dell'acido obeticolico e di altri possibili farmaci di seconda linea di trattamento per la CBP. È importante mantenere l'accesso alla terapia con acido obeticolico, attualmento l’unico farmaco approvato in Italia come seconda linea per la CBP, per i pazienti che non rispondono adeguatamente alla terapia standard con acido ursodesossicolico. Un approccio basato sull'evidenza garantirà che i pazienti con CBP continuino a ricevere le cure migliori possibili, riducendo il rischio di progressione della malattia nonché l’evento trapianto di fegato e migliorando significativamente la qualità della loro vita.
La ringrazio per l’attenzione che sono certo dedicherà a questa importante questione.
Prof. Pietro InvernizziProfessore Ordinario di Gastroenterologia Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università di Milano-Bicocca, MilanoS.C. Gastroenterologia e Centro Malattie Autoimmuni del Fegato, IRCCS San Gerardo dei Tintori, MonzaAnche a nome dei seguenti esperti:
Domenico AlvaroProfessore Ordinario di GastroenterologiaDipartimento universitario di Medicina Traslazionale e di PrecisioneFacoltà di Medicina e Odontoiatria, Sapienza Università di Roma Vincenza Calvaruso Professore Associato di GastroenterologiaDipartimento di Promozione della Salute, Materno Infantile, Medicina Interna e Specialistica di Eccellenza "G. D'Alessandro" (PROMISE), Università di PalermoMarco Carbone Professore Associato di Gastroenterologia Centro Malattie Autoimmuni del Fegato Scuola di Medicina e Chirurgia, Università di Milano-Bicocca, MilanoS.C. Epatologia e Gastroenterologia, ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, MilanoAntonio Craxì Professore Ordinario di Medicina Interna e GastroenterologiaDipartimento di Promozione della Salute, Materno Infantile, Medicina Interna e Specialistica di Eccellenza "G. D'Alessandro" (PROMISE), Università di PalermoAnnarosa FloreaniConsulente Scientifico presso l’IRCCS di Negrar, VeronaAna Lleo Professore Ordinario di Medicina Interna Centro per le Malattie Autoimmuni del Fegato, Humanitas Research Hospital Marco MarzioniProfessore Associato di Gastroenterologia ed EpatologiaUniversità Politecnica delle MarcheOspedali Riuniti Torrette di AnconaUmberto Vespasiani GentilucciProfessore Ordinario di Medicina InternaUniversità Campus Bio-Medico di Roma
29 febbraio 2024
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