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La riforma di Cameron. Spandonaro (Ceis): "Tutto il potere ai medici. Presto per dire se funzionerà"


Secondo l'economista, coordinatore del Ceis Sanità di Tor Vergata, l’esperimento inglese resta in ogni caso molto importante e interessante "perché pone un problema e impone un cambiamento di pelle: abbandonare il sistema centralizzato e paternalistico della sanità. In Italia vogliamo superarlo attraverso il federalismo, gli inglesi hanno scelto quest’altra strada".

 

27 GEN - Quotidiano Sanità continua il suo approfondimento sulla riforma sanitaria inglese. Dopo l’intervista ad Francesco Carelli, medico italiano membro del Royal College e del British Medical Council, ecco l’opinione di Federico Spandonaro, docente di Economia Sanitaria presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma Tor Vergata e coordinatore scientifico del Rapporto annuale Ceis-Sanità.

Professor Spandonaro, che idea si è fatto della riforma sanitaria inglese?
Da una prima lettura delle sintesi apparse sulla stampa, mi sembra emergano tre diverse ipotesi sulla struttura e sugli obiettivi di questa riforma. La prima  è che il governo pensi di poter ottenere abbondanti risparmi dal taglio della burocrazia e degli intermediari, abolendo le Strategic Health Authorities e i Primary Care Trusts e affidando la gestione della sanità ai medici di famiglia. Indubbiamente ci sarebbero minori costi di transazione, legati anche alla riduzione del strutture e del personale, con buona soddisfazione dei medici e dei cittadini, tradizionalmente ostili alla burocrazia.
L’altra possibile lettura è che si spinga verso un meccanismo basato sulla maggiore libertà di scelta e sul trasferimento ai medici della gestione complessiva del paziente. La programmazione dei servizi e delle strategie assistenziali passerebbe infatti nelle mani dei medici di famiglia. Gli stessio che già oggi, soprattutto in Inghilterra, hanno un forte legame, anche personale, coi loro assistiti. Il cittadino, quindi, di riflesso, diverrebbe parte attiva nelle decisione sanitarie del territorio. Un cambiamento, ma più legato alla libertà di scelta e alla qualità del rapporto sanità-cittadino che non ad aspetti economicistici.
La terza ipotesi è quella di creare maggiore separazione tra chi compra e chi eroga le prestazioni. Un dibattito antico, che aveva già avviato Margaret Thatcher. Del resto finché il budget è affidato a un qualche organismo del National Service, un conflitto di interessi ci sarà sempre. La riforma, invece, intende affidare il budget ai medici che, almeno in apparenza, non sono in affari con gli erogatori e quindi saranno imparziali.

È effettivamente così?
La distinzione dei ruoli sarebbe chiara, ma non si può escludere che l’affidamento di un ruolo di potere finanziario non comporti alcune tentazioni per il medico. In ogni ambito la responsabilità è anzitutto del singolo, ma servono anche organismi di controllo. Nel caso dei medici di famiglia, il controllo viene dal basso, cioè dai cittadini stessi, che sono liberissimi di sostituirlo con un altro professionista se sospettano che li mandi in un determinata ospedale perché è in affari con esso. Certo, se cambiare medico a Londra è facile, meno facile è farlo in un paese dove operano in totale pochi medici. Il fatto è che nessun sistema è infallibile.

Secondo lei quale di queste tre ipotesi da lei avanzate prevarrà?
Difficile dirlo. L'impianto della riforma, di cui lo ripeto non ho ancora avuto modo di leggere il testo completo presentato dal Governo inglese, oscilla tra una visione diciamo filosofica ed una efficientistica. Al momento e sulla base di quanto ho letto sui giornali propenderei per la prima. Per due ragioni: anzitutto, come dicevo, la gente ne ha abbastanza di burocrazia e la riforma insiste molto sullo snellimento; la seconda è che la riforma fa un grande salto culturale, perché si è presa definitivamente consapevolezza che la sanità, centralizzata e unitaria, non è più gestibile.

Il fulcro della riforma inglese è un deciso rafforzamento del livello territoriale. Crede che la riforma inglese possa essere in qualche modo di ispirazione per il nostro Paese alle prese da anni da una territorializzazione difficile?
La prima cosa da scoprire è se sia una scelta giusta dare tutto questo potere alla medicina generale. In Italia si sta spingendo molto in questa direzione, ma la medicina territoriale in Italia è una grande questione irrisolta. La sanità territoriale inglese è molto forte e consolidata, e i medici di famiglia hanno già oggi un ruolo molto importante. In Italia, al di là delle parole, la medicina territoriale è in mano ai Distretti, che onestamente non mi sembra possano essere considerati un’esperienza vincente.
In Italia, inoltre, non si è mai affrontato il tema della separazione di ruoli tra chi compra e chi eroga prestazioni. L’unica esperienza a riguardo è stata fatta in Lombardia, ma non in modo risolutivo. Il sistema non può realmente cambiare se si estrapolano dal sistema solo alcune strutture ospedaliere e si lasciano tutte le altre in capo alle Asl.

Affidando la gestione delle risorse e della programmazione a livelli così fortemente decentrati, non si rischia di perdere il controllo sull’utilizzo delle risorse o di creare disparità tra la sanità di un’area e quella di un’altra?
Quanto all’utilizzo delle risorse, i medici avranno comunque un limite di budget e in questo è già insita una forma di controllo a monte. Un ulteriore controllo, come detto, verrà dal basso, cioè dai cittadini, che valuteranno se i servizi offerti rispondono effettivamente ai loro bisogno di salute.
Quanto alla possibilità di creare differenza tra le prestazioni sanitarie offerte nelle diverse aree del Paese, molto probabilmente sarà così. Ma la domanda è: conviene avere un sistema accentrato e indifferenziato o un sistema più decentrato e personalizzato?
Quando si vuole essere sicuri di non svantaggiare nessuno, si tende a cercare l’equità orizzontale, cioè dando a tutti la stessa cosa. Sinceramente credo che l’equità da cercare oggi in sanità sia quella verticale. E cioè, date per certe alcune prestazioni essenziali, individuare i bisogni di un territorio per rispondere alla reale, e quindi potenzialmente anche diversa, domanda di salute dei cittadini.

Sulle spalle dei medici inglesi arriverebbero nuove responsabilità manageriali. Saranno in grado di gestirle?
È un dubbio legittimo, che vale per l’Italia come per l’Inghilterra, dove già tanto tempo fa provarono a mettere nelle mani dei medici di medicina generale dei budget e i risultati non furono molto positivi.

Quindi il successo della riforma inglese non è affatto scontato?
Non lo è. L’unica cosa certa, per ora, è che realizzarla comporterà dei costi. I risparmi, invece, sono una speranza legata all’effettiva efficacia degli interventi. L’esperimento inglese resta in ogni caso molto importante e interessante perché pone un problema e impone un cambiamento di pelle: abbandonare il sistema centralizzato e paternalistico della sanità. In Italia vogliamo superarlo attraverso il federalismo, gli inglesi hanno scelto quest’altra strada.

Anche gli inglesi, però, stanno decentrando…
Ma le differenze tra i due approcci sono abissali. Con il federalismo l’Italia decentrerà i servizi, ma le decisioni e le modalità di gestione resteranno in mano all’ente pubblico. Il modello inglese, al contrario, mira a bypassare l’ente pubblico. È un cambiamento rivoluzionario per un sistema da sempre dirigista per antonomasia.

Insomma, in Inghilterra, così come in Italia, si va a tentativi finché non si trova un buon modello di sanità territoriale e decentrata?
Credo che l’aspetto da sottolineare sia cosa cambia per il cittadino. Nel sistema italiano si sancisce la libertà di scelta, ma con tutta una serie di vincoli. Se è vero che si può scegliere di effettuare un intervento in una struttura, anche di un’altra Regione, a livello territoriale il cittadino non ha scelta. Posso cambiare medico di base, ma non posso cambiare la mia Asl. I medici di famiglia possono anche decidere di fare l’associazionismo, le unità di cure primaria e quant’altro, ma questo non cambierà il sistema perché, di fatto, le decisioni e la gestione restano in capo alle Asl. Nei fatti, gli italiani hanno più libertà di scelta per quanto riguarda l’offerta ospedaliera che non territoriale.
 
 
Lucia Conti

27 gennaio 2011
© Riproduzione riservata

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