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Il Decreto Crescita favorisce realmente la sanità integrativa? In realtà no. Ecco perché


Tra le misure di interesse sanitario del Decreto Crescita approvato ieri in via definitiva dal Parlamento c'è l'articolo 14 che ha reinserito le associazioni assistenziali, tra le quali ricadono i fondi integrativi sanitari, tra gli enti le cui attività sono da considerare non commerciali. Una norma che ha sollevato molte proteste da parte di chi la ritiene un "regalo" alla sanità integrativa. Le cose in realtà sono un po' diverse. IL TESTO.

28 GIU - Con 158 voti favorevoli, 104 contrari e 15 astensioni, l'Assemblea di Palazzo Madama, ha rinnovato ieri la fiducia al Governo approvando, senza emendamenti e articoli aggiuntivi, l'articolo unico del ddl di conversione, con modificazioni, del Decreto Crescita nel testo licenziato dalla Camera.
 
All'interno del testo sono presenti alcune misure per la sanità. Quelle di cui è discusso di più sono certamente le norme inserite nell'articolo 14 dove troviamo la disposizione sugli Enti associativi riscritta nel corso dell'esame in prima lettura. Su questa parte del provvedimento si sono scatenate diverse polemiche negli ultimi giorni, dalla Fondazione Gimbe fino alla Fnomceo, per il timore dell'insorgere di nuove agevolazioni fiscali per fondi integrativi e welfare aziendale che favorirebbero la privatizzazione del Ssn.
 
Gimbe nei giorni scorsi in particolare denunciava che "con il Decreto crescita il Governo del Cambiamento ha riconosciuto la natura non commerciale dei fondi sanitari nonostante oltre 4/5 dei fondi sanitari siano gestiti da compagnie assicurative, permettendo così alle agevolazioni fiscali concesse ad enti non commerciali di alimentare i profitti di imprese commerciali”.
 
In realtà il Decreto Crescita non aggiunge nulla di nuovo ma si limita a ripristinare, per gli Enti associativi assistenziali, la situazione vigente prima della riforma del Terzo Settore del 2017.
 
Con quella riforma (varata dal Governo Gentiloni nel 2017) venivano infatti escluse dall’elencazione dei soggetti (previsti dal Testo unico delle imposte sui redditi, DPR 22 dicembre 1986, n. 917, articolo 148, comma 3) cui è consentito effettuare, in regime fiscale di non commercialità, prestazioni ai propri associati e partecipanti anche a fronte del versamento di “corrispettivi specifici”, le entità “assistenziali”, fra le quali sono sempre stati ricondotti gli enti e le casse sanitarie di origine collettiva.
 
Quella esclusione, tra l’altro mai diventata operativa, aveva comportato l’emergere di un evidente vulnus come spiegava bene all’epoca dei fatti Assoprevidenza (l'Associazione Italiana per la Previdenza Complementare) in una sua circolare agli associati, sintetizzando come segue le ricadute sui fondi sanitari delle modifiche al citato art. 148 del testo unico sui redditi apportate dalla riforma del Terzo settore:
a) i fondi sanitari, costituiti sia come fondi integrativi del Servizio sanitario nazionale ai sensi dell’art. 10, lett. e-ter), sia come enti e casse di derivazione negoziale ai sensi dell’art. 51, lett. a), del TUIR, possono mantenere natura non commerciale ai sensi del comma 1 dell’art. 148 e, dunque, possono erogare prestazioni rientranti nelle loro finalità istituzionali agli associati o partecipanti a fronte del pagamento di quote o contributi associativi che danno diritto a ricevere le predette prestazioni, ovverosia prestazioni in via generale e uniforme previste dall’ente a favore di tutti gli associati o partecipanti (per così dire, prestazioni ‘standardizzate’);
 
b) i ridetti fondi, invece, non possono erogare – al fine della conservazione della propria natura non commerciale – prestazioni maggiori o diverse, ancorché rientranti nelle loro finalità istituzionali e a favore dei propri associati o partecipanti, là dove per l’erogazione di siffatte prestazioni sia previsto il pagamento di corrispettivi specifici, anche sotto forma di contributi o quote supplementari.
 
In sostanza i fondi restavano, da un lato enti non commerciali e come tali i premi e i contributi di iscrizione versati dagli iscritti non concorrono a formare il reddito complessivo, mentre dall'altro diventavano “commerciali” per le prestazioni “extra paniere” fornite dai fondi stessi anche quando queste erano in linea con le finalità istituzionali dei fondi stessi.
 
Una contraddizione che si era già provato a sanare in altre occasioni senza successo e che ora ha trovato una sistemazione organica nel Decreto Crescita riportando la situazione a quella ante 2017.

In ultima analisi possiamo dire che con il Decreto Crescita non vengono riconosciuti nuovi privilegi ai fondi sanitari, come forse troppo frettolosamente è stato scritto, perché il decreto si limita ad armonizzare i diversi interventi normativi sulla materia e a colmare quel vuoto legislativo per gli Enti assistenziali che si era venuto a creare con la riforma del Terzo Settore.
 
Le altre misure di interesse sanitario del Decreto. Da seganalre poi che il Decreto Crescita prevede anche, all'articolo 38 (Debiti enti locali) comma 1-novies, l'estenzione anche all'anno 2019 dell'accantonamento di 32,5 milioni per l'attività di ricerca, assistenza e cura relativi al miglioramento dell'erogazione dei livelli essenziali di assistenza previsti dal Decreto Fiscale. La misura, frutto di due identici emendamenti presentati la scorsa settimana da Lega e Forza Italia presso le Commissioni riunite Bilancio e Finanze, era stato in un primo momento bocciato, per poi essere successivamente ammesso a sguito del ricorso presentato.

Più in particolare, nel testo si spiega che l'accantonamento di 32,5 milioni, secondo gli importi che verranno definiti in sede di Conferenza Stato Regioni, dovrà essere ripartite per finanziare l'Ospedale Bambino Gesù, l'Irccs Fondazione Santa Lucia ed il Cnao. Nel Decreto Fiscale questi stanziamenti erano stati così ripartiti: 9 milioni per 'Ospedale Bambino Gesù, 11 milioni in favore dell'Irccs Fondazione Santa Lucia e 12,5 milioni al Cnao.

28 giugno 2019
© Riproduzione riservata
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