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Richiesta di morire, come supportare il paziente? Il documento di psicologi, medici e infermieri


Il documento è stato presentato dall’Ordine degli Psicologi del Lazio durante l’evento “La sofferenza tra prassi sanitaria e legislazione”. Iniziativa+romossa in collaborazione con la Società Nazionale Medica Interdisciplinare cure primarie e l’Associazione Luca Coscioni IL DOCUMENTO

17 LUG -

Garantire una risposta condivisa e multidisciplinare alla domanda del paziente che chiede di revocare, rifiutare o accedere al suicidio volontario medicalmente assistito circostanziato.

È l’obiettivo del documento presentato dall’Ordine degli Psicologi del Lazio, il 10 luglio, durante l’evento “La sofferenza tra prassi sanitaria e legislazione”. L’iniziativa è stata promossa in collaborazione con la Società Nazionale Medica Interdisciplinare cure primarie e l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS.

La legislazione italiana, con la legge 219 del 2017 e la sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale, ha accolto il diritto della persona malata, se gravemente sofferente in termini fisici e psicologici, a far valere la propria volontà circa la prosecuzione o l’interruzione di una proposta terapeutica. Tuttavia, in assenza di protocolli formalizzati e condivisi tra tutti gli operatori sulla gestione di tale richiesta, il percorso di applicazione del dettato normativo può rivelarsi particolarmente complesso e carico di dilemmi professionali e umani.

Per questo, per la prima volta in Italia, un tavolo di lavoro multidisciplinare composto da psicologi, medici, infermieri, assistenti spirituali, bioeticisti, giornalisti e familiari si è riunito con l’obiettivo di gettare le basi traversali e condivise della risposta al malato in questo delicato e difficile passaggio. Dal confronto, durato oltre un anno, è scaturito l’e-book “Sofferenza e desiderio di morte: le prassi dello psicologo, medico, infermiere a sostegno della persona”.

Come ha spiegato Monia Belletti, psicologa, psicoterapeuta e coordinatrice del progetto, “Il nostro lavoro è consistito in un dibattito costruttivo tra professionisti e esponenti della società civile sensibili alle tematiche che, pur provenendo da impostazione culturali e profili professionali diversi, hanno voluto raggiungere un risultato concreto e condiviso. È stato impegnativo confrontarsi con le diverse dimensioni della sofferenza vissute dalla persona, da quella fisica a quella psicologica, spirituale ed esistenziale, arrivando a includere quella sperimentata dall’operatore e dal familiare. Così come è stato complesso entrare nelle pieghe del linguaggio, trovare una base terminologica comune laddove anche la letteratura scientifica fatica ad esprimere formulazioni univoche. Il Tavolo di lavoro ha affrontato questi temi cercando di dare risposte concrete, ispirate dalle conoscenze attuali, dai dati empirici e dell’esperienza degli operatori, e ponendo al centro il rispetto per la dignità e la volontà della persona. Il testo prodotto vuole essere un punto di partenza e, auspicabilmente, uno spunto per ulteriori analisi, riflessioni ed elaborazioni, anche con il contributo di nuove figure, quanto mai necessarie in un contesto professionale in continua evoluzione”.

Sulla complessità della condizione psicologica del malato in fase avanzata e la modalità in cui sostenerlo si è soffermato Jean-Luc Giorda, psicologo, psicoterapeuta e psicodiagnosta: La persona che dice di desiderare di morire vive una condizione mentale particolare, segnata da una condizione di sofferenza fisica e psicologica estrema. Compito dello psicologo è accogliere questa condizione e la persona che porta questa richiesta, senza giudicarla, ma aiutandola a comprenderla e a elaborarla, facendo chiarezza dentro di sé, in base ai suoi valori, non ai nostri. La nostra funzione è scremare quella parte di pensiero ed emozione che deriva direttamente dalla condizione di sofferenza generata dalla malattia per consentirle di essere più lucida nella sua autodeterminazione, che va comunque rispettata. È un lavoro da svolgere con grande umiltà, nella consapevolezza che non abbiamo verità assolute. Per le procedure di valutazione c’è ancora molta ricerca da fare, gli strumenti che abbiamo a disposizione non sono ancora sufficientemente specifici. Tuttavia, la valutazione psicodiagnostica è una parte importante in un percorso complesso, che deve comprendere, da parte dello psicologo, l'integrazione con le competenze degli altri componenti dell'équipe e l'ascolto dei familiari. Il tutto per riconoscere sempre la specificità irriducibile di ogni individuo, e garantire il rispetto della sua dignità e delle sue scelte”.

Anche Fabio Lucidi, psicologo e professore ordinario di psicometria, affrontando il tema del contributo della ricerca e delle evidence based practice nel contesto specifico, ha voluto ribadire l’importanza della relazione con il paziente: “Uno dei significati più ampi del documento che presentiamo è l’impulso alla raccolta dei dati. Naturalmente nelle decisioni che coinvolgono i pazienti in fase avanzata della malattia, spesso, per ragioni etiche, non è opportuno seguire i rigidi criteri metodologici dei clinical trial. Ma questo non significa rinunciare alla forza delle evidenze: vuol dire, piuttosto, integrare i migliori dati disponibili con l’esperienza professionale, con le caratteristiche, i bisogni, i valori e le preferenze dei pazienti, compatibilmente con il contesto ambientale, organizzativo e normativo. Dunque, è un percorso decisionale coscienzioso e complesso, basato sulla consapevolezza che il processo di cura è sempre individualizzato, in continuo aggiornamento, e che interessa aree con un inevitabile profilo di incertezza. L’impulso alla raccolta dei dati, insomma, non deve togliere nulla al rapporto con la persona, ma deve servire a sostanziarlo in modo argomentabile, generalizzabile e trasferibile nella pratica clinica”.

Pietro Stampa, vice-presidente e coordinatore della commissione deontologica dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, ha sottolineato le particolari prerogative del contributo dello psicologo, in special modo rispetto al lavoro di equipe. “L’università - ha spiegato - non prepara nessuna delle professioni di cura alla sfida intellettuale della messa tra parentesi dei propri valori, del proprio punto di vista etico, della propria ideologia per entrare in sintonia con l’altro, che non è solo il paziente, ma anche il famigliare, l’operatore. Lo psicologo è l’unica figura professionale in cui la relazione con l’altro non è solo terreno in cui si dispiega l’intervento, ma è anche il principale strumento di lavoro e di verifica della sua efficacia. Il suo codice deontologico, a differenza delle altre categorie, contiene ben pochi divieti, ma raccomandazioni che invitano ad applicare un principio di autoregolazione che consenta di trovare sempre una posizione ideologicamente, intellettualmente e culturalmente neutrale nel momento in cui si confronta con l‘altro. Su questo, dunque, lo psicologo può trasferire alcune skill tipici alle altre famiglie professionali, in una dinamica di reciproco arricchimento”.

Anche Daniela Cattaneo, medico palliativista e bioeticista, ha insistito sull’importante ruolo della formazione e della necessità di un più stretta collaborazione nel lavoro di equipe: “In ambito italiano le cure palliative sono erogate mediamente per 21 giorni, contro i 68 del Canada. E’ evidente come ciò che la legge 38 e l’Organizzazione Mondiale della sanità prevedono sia molto distante dalla realtà di tutti i giorni in Italia. Questo ritardo investe direttamente un ambito fondamentale, che è quello della formazione. Nessuno ha avvicinato noi medici alla risposta a un rifiuto a vivere e alla messa in atto di questa volontà. Abbiamo una concezione lineare della morte quando, in realtà, di lineare non c’è nulla. Il processo del malato che esprime la richiesta di morire non lo conosciamo in tutte le sue diramazioni, abbiamo la necessità di un quadro più armonico, di una seria educazione al fine vita, di un più forte coinvolgimento degli specialisti delle cure palliative, di una chiara attività di informazione, di applicare il principio per cui la comunicazione è intesa come tempo di cura. C’è un importante lavoro da fare, perché erogare cure palliative non significa avere solo un team multidisciplinare, ma disporre di una serie di competenze in grado di rispondere compiutamente alle problematiche della persona”.

Anna Tedeschi, infermiera palliativista e direttrice dell’hospice “L’Albero della Vita”, ha offerto il punto di vista di chi quotidianamente assiste la persona malata, invitando a prestare particolare attenzione al momento dell’ascolto: ”Il dolore e la sofferenza provocati dalla malattia non colpiscono solamente il corpo dell'uomo, ma la realtà stessa dell'essere persona, limitandone la libertà e spesso anche l'autonomia, con ripercussioni nella percezione del proprio ruolo sociale e nel contesto familiare. Non sempre la richiesta di aiuto della persona malata è così manifesta, ed è qui che interviene l'importanza dello stare accanto, del prendersi cura dell'assistito e non solo della sua malattia. In questo contesto occorre preservarsi dal rischio di un atteggiamento paternalistico in cui si sottovalutano le esigenze del paziente, le sue capacità individuali e soprattutto le sue volontà. Bisogna ascoltare e fare in modo che la persona disponga delle informazioni condivise con l'equipe necessarie non solo ai suoi bisogni di vita, ma anche alla scelta consapevole dei percorsi di cura proposti. Percorsi che può ritenere non proporzionati alle sue condizioni, o coerenti con la sua concezione di qualità della vita”

Alfredo Cuffari, medico di medicina generale e presidente nazionale SNAMID, ha messo in evidenza il contributo dei medici di medicina generale nello stabilire una relazione autentica con il paziente: “Il nostro rapporto con la persona dura negli anni, dunque in una situazione di malattia grave il supporto che siamo chiamati a fornire non si traduce in un semplice ausilio “tecnico”: il medico conosce la casa, il lavoro, i parenti, ed ha accompagnato la vita della persona in numerosi momenti. In sostanza, è quasi un famigliare. In un passaggio complesso e delicato come quello della malattia in fase avanzata il contributo all’interno di un lavoro di equipe è rappresentato dal valore aggiunto di questa prossimità, in grado di agevolare in modo significativo la comprensione delle attese e delle volontà della persona”.

Barbara Carrai, tanatologa, assistente spirituale in équipe di cure palliative, ha contribuito a chiarire il profilo e la funzione offerta dalla figura dell’assistente spirituale: “In un paese cattolico come il nostro la dimensione spirituale è spesso confusa con quella religiosa. In realtà la spiritualità è qualcosa di complesso e distinto, che interessa la dimensione trascendente dell’individuo, il complesso dei valori che lo animano, il significato della sua esistenza. Grandi domande, forse senza risposta, che tuttavia la persona può avvertire l’esigenza di affrontare. In queste circostanze l’assistente spirituale offre ascolto e dialogo, o semplicemente un conforto silenzioso, a testimonianza di una presenza che accompagnerà al malato fino alla fine. Nei documenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e delle associazioni per le cure palliative si sottolinea che se ci si vuole occupare compiutamente della persona va prestata attenzione a tutte le sue dimensioni: psicologica, sociale, fisica, ma anche spirituale. Aspetti che suddividiamo in campi di azione diversi solo per ragioni pratiche e funzionali, che tuttavia coesistono nel medesimo individuo. Per questo il dialogo tra i membri dell’equipe e il confronto costante assume un valore così importante”.

Winfrid Pfannkuche, pastore della chiesa valdese, ha richiamato la continuità tra l’ispirazione ideale del tavolo e i contenuti del documento: ”La morte è lì dove manca la comunicazione, dove manca il dialogo. Il bello di questa commissione è che ha lavorato su un modello dinamico, di incontro e confronto tra i saperi, investendo sulla qualità della relazione tanto tra il paziente e l’equipe che all’interno di quest’ultima. Anche la forma del documento che abbiamo prodotto porta con sé questo approccio dialogico, basandosi su una struttura di domanda e risposta che è la più profonda, aperta e simmetrica possibile””.

Infine, Wilhelmine Schett Welby, co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS, ha rappresentato nel documento la voce dei famigliari e ricordato, nel suo intervento, l’importanza del momento educativo, rispetto al quale l’e-book realizzato dal tavolo dovrà svolgere un ruolo importante: “Il quotidiano della vita va vissuto senza estremismi, garantendo che ci sia posto per ogni voce e che ciascuna persona possa esercitare il proprio diritto di scelta, anche con il silenzio di chi non è d’accordo. Occorre far conoscere questo importante documento, e mi riprometto di farlo con tutti i volontari delle associazioni in un confronto che si estenda a medici, famigliari, ammalati. E ai ragazzi. Nel nostro progetto “Scolarmente” organizziamo incontri nelle scuole con esperti per parlare di scienza e anche di temi come il fine vita. Dovremo portarlo anche lì”.



17 luglio 2023
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