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No agli interventi senza speranza. Lepre (Trib.Napoli): "Il paziente non può mai divenire una cavia"


Questo il commento di Antonio Lepre, magistrato ordinario presso il Tribunale di Napoli, dopo la sentenza emessa recentemente dalla Corte di Cassazione che ha confermato la condanna in Appello di tre medici del San Giovanni di Roma che avevano operato una donna, con prognosi di 6 mesi di vita, deceduta a seguito dell'intervento.

21 APR - Un paziente a cui resta poco tempo da vivere non deve essere sottoposto ad alcun intervento se è evidente che questo non potrà portare alcun beneficio per la salute né un miglioramento della qualità di vita. E questo anche se il paziente è stato informato sui rischi ed è consenziente. Per questo la Corte di Appello di Roma aveva condannato un chirurgo e altri due medici dell'ospedale San Giovanni di Roma affermando, tra l'altro, che “i chirurghi avevano agito in dispregio al Codice Deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento diagnostico-terapeutico". Sentenza confermata dalla IV sezione penale della Corte di Cassazione, che pur annullando senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello “per essere il reato estinto per prescrizione”, riprende l’espressione usata dalla Corte di Appello relativa a un “inutile accanimento diagnostico-terapeutico” in pratica avallandola.
 
Sulla vicenda, che ha suscitao molte reazioni nel mondo professionale, abbiamo chiesto un commento ad Antonio Lepre, magistrato ordinario presso il Tribunale di Napoli, autore di un recente volume dedicato alla responsabilità civile delle strutture sanitarie, edito da Giuffré.

"La Cassazione, annullando senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello “per essere il reato estinto per prescrizione”, non affronta ex professo il tema dell’accanimento terapeutico anche se, nella parte in cui esclude la “ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito”, usa espressioni che possono far ritenere una condivisione delle valutazioni della Corte di merito. In altri termini la Cassazione, se si fosse convinta della innocenza dei sanitari che avevano proposto ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello che li aveva ritenuti colpevoli e, quindi, condannati, li avrebbe assolti perché, naturalmente, la assoluzione prevale sulla dichiarazione di prescrizione del reato.
Non è stato così in quanto la Suprema Corte, pur non affermando, e non potendo per motivi tecnici affermare apertis verbis che sussisteva la responsabilità dei sanitari, si è dilungata su molteplici passi della sentenza emessa dalla Corte di merito e sulle ragioni che avevano indotto la stessa a ritenere provato sia il nesso di causalità tra molteplici omissioni addebitate ai medici e l’evento morte, sia la grave colpa degli operatori, anche sotto il profilo deontologico, per aver effettuato un intervento che non aveva alcuna possibilità, sotto alcun profilo, di risultare utile alla paziente.
È a tal riguardo significativo che la Cassazione riprenda la espressione usata dalla Corte di Appello relativa a un “inutile accanimento diagnostico-terapeutico” che avrebbe caratterizzato la fattispecie, in pratica sembrando avallarla, con il che si manifesta in tutta la sua evidenza il problema di quali siano i limiti alla sperimentazione, non essendo dubbio che il progresso della scienza, nell’interesse della collettività, si realizza anche attraverso la adozione di metodiche innovative sia in campo farmacologico che chirurgico.
La Suprema Corte, come detto, non si pronuncia sul punto non essendo lo stesso oggetto di un suo specifico esame, anche se, in un questo caso, va forse oltre i confini che le sono propri. Come è noto, infatti, la Cassazione è “giudice di legittimità” e non “di merito”, il che significa che la stessa deve pronunciarsi solo su questioni di puro diritto non potendo sindacare, se non in ipotesi eccezionali, i fatti come accertati e valutati dai giudici di grado inferiore: nel caso di specie, invece, come accennato, sembra aver “sposato” il giudizio della Corte d’Appello sulla ritenuta responsabilità dei sanitari, senza peraltro affermare principi di diritto in ordine al problema della sperimentazione e ai sui limiti, non potendolo fare perché non era questo il problema su cui doveva pronunciarsi, e dovendo prevalere, per ragioni di tecnica giuridica, la dichiarazione di prescrizione del reato.
Detto ciò, il problema della sperimentazione e dell’accanimento sia diagnostico che terapeutico è stato comunque evidenziato in un caso di notevole complessità, come dimostrano la sentenza della Corte d’Appello e gli elaborati peritali che ne sono alla base. Non è ovviamente agevole esprimere regole se non di ordine generale, perché ogni caso va valutato nella sua tipicità, può tuttavia affermarsi che il principale limite alla sperimentazione – dando in ogni caso per scontato il consenso del paziente – è rappresentato dalla sua, per dir così, “avventurosità”, nel senso che ciò che, sia pur anche lì con doverosi distinguo, può ritenersi lecito con riferimento agli animali, non altrettanto può dirsi con riferimento all’”animale-uomo”, che  mai può divenire, nelle mani di sanitari anche se motivati da ottime intenzioni, una “cavia”.
 
Antonio Lepre

 

21 aprile 2011
© Riproduzione riservata

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