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La formazione specialistica e la sindrome del Gattopardo dell’Università italiana

di Costantino Troise

Imbuto formativo, età avanzata di ingresso nel mondo del lavoro, prodotto finale grezzo, nemmeno semilavorato. Queste le principali criticità della formazione medica in Italia. Alle quali si risponde con la logica del gattopardo. Raccontandoci che è già cambiato tutto per non cambiare niente, distribuendo demagogia e retorica a piene mani ed agitando spauracchi, per  mantenere un sistema che oggi dà più lavoro a giudici ed avvocati di quanto ne dia ai medici, spinti  alla  fuga

08 APR - Gentile Direttore,
il polverone  che si è sollevato, ed il fuoco di sbarramento che si è aperto, in merito alle modalità di traduzione in norme  della  volontà,  espressa da Governo e Regioni nel Patto della Salute e  nella legge di stabilità 2015,  di mettere mano alla formazione medica post laurea, la dice lunga  sullo stato delle cose.
 
Il riflesso condizionato a difendere  rendite di posizioni, con oneri economici rilevanti a carico del contribuente, al riparo da qualunque valutazione di processo o di esito, e  da innovazioni, scattato  simultaneamente  in chi il danno subisce ed in chi lo produce, una versione inedita della sindrome di Stoccolma,  parla più di ogni documento.
 
Fenomenale la tempestività del Presidente del CUN  che,  nello stesso giorno in cui l’argomento è in discussione ad un tavolo politico sindacale, cui ha invano  tentato di partecipare per interposta persona,  scrive al suo Ministro  per dire che non c’è bisogno di cambiare niente perché tutto va bene, paventare il rischio di “inadeguatezza” di ogni novità, come  se il sistema attuale fosse  adeguato, lanciare l’allarme sulla riduzione della presenza dello specializzando nelle sedi “atte” alla sua formazione, alias quelle universitarie,  magnificare però la collaborazione con il SSN come virtuosa, e non virtuale e cartacea come  è, tranne poi definire “cosiddetta” la attività formativa al suo interno.
 
Un racconto mitico  che descrive lo sforzo  della Università di adeguare i  requisiti di accreditamento della  rete formativa, di fatto mai nata sebbene   prevista da 25 anni, senza curarsi, però, di  rispettarli,  condito con quel pizzico di superiorità  che usa  il lavoro in formazione per  realizzare il  volume di attività che serve a mantenere in vita le strutture universitarie,  ma lo taccia di sfruttamento quando avviene in altre sedi della stessa rete. 
 
Una  santa, e curiosa, alleanza, in cui gli estremi  finiscono con il toccarsi, mira a fare prevalere la logica del gattopardo, raccontandoci  che è  già cambiato  tutto per non cambiare niente, distribuendo demagogia e retorica  giovanilista a piene mani ed agitando spauracchi, per  mantenere un sistema che  oggi dà più lavoro a giudici ed avvocati di quanto ne dia ai medici, spinti  alla  fuga. Ma così va questo Paese.
 
Malgrado i fiumi di parole che, non da ora, l’Anaao ha  prodotto sull’argomento, ri-provo a fare  chiarezza, premettendo che i nostri non sono dogmi ma proposte, che nascono da evidenze che, semplicemente, non si possono nascondere. 
 
Le criticità della formazione medica in Italia sono sostanzialmente 3:
1) l’imbuto formativo, 
2) una  età avanzata di ingresso nel mondo del lavoro, 
3) un  prodotto finale  grezzo, nemmeno  semilavorato.
 
La prima è la più consistente. L’imbuto formativo è il gap tra numero di  laureati in Medicina e numero di ammessi alla formazione post specialistica, creato dall’incremento di  matricole,  che  la Università  ha voluto a scapito anche della qualità didattica ,  ed un numero limitato di contratti di formazione , cui hanno dato una mano le inefficienze di chi gestisce i concorsi alimentando il canale di accesso del TAR che in due anni ha prodotto 11.000 matricole in più.  I numeri sono “cantatori” e dicono che negli ultimi 10 anni la differenza tra laureati e ammessi alla formazione post laurea è stata pari a  circa 10.000 medici.
 
Nel 2015  13.188 medici si sono contesi  6383 posti di formazione specialistica e 989 in medicina generale, lasciando il resto nell’imbuto, pronto a ripresentarsi negli anni successivi. Con il rischio di una sua crescita esplosiva , ed ingestibile, tra 3-4 anni.  E cosa faranno? Ma  ai numeri nessuno risponde .
 
Il rimedio all’imbuto non può che essere,  almeno per  alcuni  anni, la riduzione della  entrata, cresciuta del 40%  in 8 anni,  e l’ampliamento della  uscita, aumentando almeno di 2000/anno il numero dei contratti. Il concorso di idee è aperto per  trovare le risorse economiche che servono per garantire che  chi inizia una  formazione  sia  messo in condizioni di finirla.
 
In un percorso  formativo che rimane unico, altro che doppio canale, contrattualizzare  il secondo biennio, laddove in Europa  tutto il periodo di formazione si svolge in regime di dipendenza, al solo fine di completare il percorso formativo e senza che sia possibile alcuna equiparazione al personale strutturato, vuol dire solo fare riconoscere, e pagare,  alle Regioni il lavoro comunque ad esso intrinseco , di cui già oggi si avvalgono,  ed aggiungere, non togliere, tutele e previdenza. Investendo il risparmio in nuovi contratti.
 
Anticipando,  insieme alla laurea abilitante,  come gli stessi specializzandi chiedono,  l’ingresso nel mondo del lavoro e la formazione di una posizione previdenziale. Il superamento dell'esame finale di specializzazione, che non può essere l’unico indicatore di  autonomia professionale, resterebbe prerogativa dell'università e l’accesso al SSN  regolato da  concorso pubblico con il requisito della specializzazione. Si  supera la dicotomia formazione-lavoro, valorizzando  anche il  ruolo delle Regioni , oggi  limitato ai  costi di  un numero marginale di contratti,  in merito alla  programmazione del numero e della tipologia di specialisti da formare.
 
Il problema, però, non è tecnico, essendo le opzioni  sempre discutibili, ma politico.  Il  sistema formativo non è proprietà privata della Università , e dei  suoi autoreferenziali  corifei, che, con la logica del manovratore che non vuole essere disturbato , dicono,  anche a Regioni e Governo,  che la materia è cosa loro. Pretendere che i futuri specialisti del  SSN siano all’altezza del ruolo professionale che li aspetta è compito di chi, Regioni e Governo, è  responsabile  della qualità delle cure e della organizzazione del sistema sanitario, in cui  numero e  qualità professionale dei nuovi medici non sono elemento marginale. Le attività professionalizzanti previste dalla normativa, italiana ed  europea,  semplicemente non possono  essere garantite dalle sole Cliniche Universitarie.
 
Se ogni specializzando deve acquisire conoscenze e abilità manuali di progressiva complessità, solo mettendo in rete una serie di strutture , universitarie e del SSN,  a differente complessità clinica ed operativa , nelle quali organizzare una  presenza a rotazione,   è possibile garantire un percorso formativo adeguato. Non dimentichiamo che nei prossimi 10 anni avremo  una uscita di massa dal sistema di medici specialisti, e di MMG,  per raggiunti limiti di quiescenza.
 
Se l’Università persegue  fini altri rispetto alla sua mission, occorre  comunque cambiare passo. Il rischio è che tutto finisca  nel  rimasticare la normativa esistente, ridurre  di una manciata di anni la durata solo di alcune scuole, continuando a tenere in parcheggio figure professionali essenziali e carenti da oggi per il sistema sanitario, ed aumentare qualche poltrona per Regioni che continueranno ad estraniarsi dalle necessità del sistema formativo per prolungare il  sub-appalto ad una altra istituzione. Che  lo  userà  come ha fatto finora, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti, con costi incrementali a carico del bilancio pubblico. E magari ci racconteranno che è stato cambiato verso e chiameranno questo fallimento rivoluzione.
 
Costantino Troise
Segretario Nazionale Anaao Assomed

08 aprile 2016
© Riproduzione riservata

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