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Obiezione di coscienza. Perché non deve diventare una “lotta politica”

di Fabio Cembrani

Come sempre succede nel nostro Paese sulle questioni eticamente sensibili, la schiera degli opinionisti si è spaccata su due fronti di curve urlanti: da una parte si è posizionato chi ritiene che questa decisione snatura le finalità della legge 194 affermando che essa non prevede questo tipo di selezione concorsuale; dall’altra chi ha plauso a questa notizia che riafferma il diritto della donna di poter interrompere volontariamente la gravidanza. Ciò che preoccupa è che anche i medici si sono divisi

25 FEB - In questi giorni Quotidiano Sanità ha ripreso le diverse prese di posizione suscitate dall’assunzione, in un ospedale romano, di due ginecologi destinati alle prestazioni assistenziali del Centro di riferimento regionale per la legge n. 194/1978 di Roma, avvenuta in seguito al Decreto autorizzatorio del Commissario ad acta della Regione Lazio dell’8 giugno 2015.

Come sempre succede nel nostro Paese sulle questioni eticamente sensibili, la schiera degli opinionisti si è spaccata su due fronti di curve urlanti: da una parte si è posizionato chi ritiene che questa decisione snatura le finalità della legge n. 194/1978 sulla tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza affermando che essa non prevede questo tipo di selezione concorsuale; dall’altra chi ha plauso a questa notizia che riafferma il diritto della donna di poter interrompere volontariamente la gravidanza.

Ciò che preoccupa è che anche i medici si sono divisi. Perché mentre la Presidente della FNOMCeo ha preso sulla questione una posizione di attesa invitando alla riflessione, l’Ordine dei medici di Roma ha pubblicamente lanciato pesanti accuse affermando che il concorso sarebbe stato discriminatorio riguardo ad un diritto sancito dalla bioetica e dalla deontologia professionale.

Pur senza la pretesa di dirimere questa nuova querelle su una questione certo non nuova nel dibattito, vorrei con riflettere su alcuni snodi critici che, nella disordinata discussione in corso, sono stati ingiustamente messi in secondo piano.

Il primo: si sta urlando allo scandalo quando esso è l’epilogo di una vicenda iniziata con un decreto del Commissario ad acta della Regione Lazio approvato non oggi ma l’8 giugno del 2015 che poteva essere impugnato per via giurisdizionale laddove ne fosse stata ritenuta la sua illegittimità.
 
Il secondo: si afferma che quella lontana legge approvata nel 1978 non prevede questo tipo di selezione concorsuale che sarebbe pertanto illegittima dimenticando che quella norma si è posta l’obiettivo di dare una tutela sociale alla maternità disciplinando l’interruzione volontaria della gravidanza.
 
Il terzo: si grida allo scandalo dimenticando i molti problemi incontrati dalle donne italiane nell’accesso alle pratiche interruttive della gravidanza e riguardo alle quali esistono, purtroppo, ampie testimonianze pubbliche (N.S. COHEN, nel suo articolo pubblicato sul New York Times il 16 gennaio 2016, ha così definito la situazione italiana: «On paper, Italy allows abortions, but few doctors will perform them»), trascurando, tra l’altro, le ripetute prese di posizione assunte contro il nostro Paese dal Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS) del Consiglio d’Europa proprio su queste questioni.
 
L’ultima decisione del Comitato (adottata il 12 ottobre 2015) ha suscitato, come spesso succede riguardo alle questioni su cui esistono posizioni morali opposte, reazioni opposte: da una parte c’è stato infatti chi ha evidenziato che la legge che disciplina l’interruzione volontaria della gravidanza deve essere applicata sul piano dei diritti riproduttivi della donna senza discriminare gli obiettori nei luoghi di lavoro (così Susanna Camusso, segretario generale della Confederazione Generale Italiana del Lavoro promotrice del reclamo collettivo n. 91/2013); dall’altra chi ha invece evidenziato che questa ulteriore decisione non ha alcun valore giuridico, che i dati presi in esame dal Comitato sono «dati vecchi, rispetto ai quali oggi abbiamo installato una nuova metodologia di conteggio e di misurazione/analisi del contesto regionale» e che la medesima «costituisce una mera proposta del CEDS e non un pronunciamento definitivo dell’organo politico costituito […] dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa» (cosi il Ministro della salute del Governo Renzi nell’intervento in Camera dei Deputati del 4 maggio 2016).
 
Pochi o tanti che siano in Italia i medici obiettori (non si finirà mai di discutere sulla questione nonostante l’ufficialità degli indicatori statistici contenuti nella Relazione annuale presentata al Parlamento proprio dal Ministro della salute), è chiaro che ciò su cui occorre riflettere è se il loro numero rappresenti o meno un ostacolo che pregiudica la salute riproduttiva della donna, le ragioni dell’esistenza di ampie variabilità regionali e locali, come la numerosità degli obiettori si rifletta realmente sull’organizzazione dei servizi pubblici ai quali la donna deve accedere per poter interrompere la gravidanza, quali siano i costi sostenuti dal Servizio sanitario nazionale per compensare il (legittimo) diritto dei medici di esprimere la loro coscienza, se l’obiezione - dando naturalmente per scontato il suo carattere veritativo - si accompagni o meno ad azioni professionali degli obiettori finalizzate a prevenire la pratica abortiva, se l’esercizio di questa libertà sia un limite che discrimina il diritto al lavoro e la progressione di carriera dei medici non obiettori e, non certo in subordine, se l’obiezione di coscienza debba essere ancora considerata un diritto incondizionato o se essa debba, invece, fare in qualche modo i conti con la sua sostenibilità pubblica; anche per non cedere alle provocazioni di chi prospetta un suo scenario di morte che, a mio modo di vedere, non offre alcuna concreta soluzione alle pretese di chi, al contrario, ne vorrebbe un suo utilizzo più ampio e coraggioso auspicandone il graduale e progressivo allargamento di orizzonte in ambiti tematici non ancora disciplinati dall’interposizione del legislatore.
 
Ed occorre, ancora, chiederci se l’obiezione di coscienza sia o meno una scelta autentica o veritativa, quali siano le attività davvero interferite dalla scelta astensiva anche per rispondere alle legittime preoccupazioni degli obiettori non umorali che temono la decadenza immediata dell’obiezione nell’ipotesi della loro partecipazione ad attività poste sotto il suo ombrello protettivo e se non sia oramai arrivato il tempo di fare un passo in avanti sul piano dell’organizzazione dei servizi per migliorarli contenendone, naturalmente, i costi vista anche la drammatica crisi finanziaria attraversata da tutti i Paesi dell’Eurozona. A patto di non voler restare nelle sabbie mobili dell’insano immobilismo italico continuando a sostenere che il problema della salute riproduttiva della donna è un falso problema, che esso viene, di regola, cavalcato per ragioni ideologiche, che la Carta sociale europea non è un Trattato internazionale e che il CEDS è un organo politico i cui pareri non sono vincolanti pur facendo l’Italia parte dell’Europa.

Sul numero degli obiettori occorre essere realisti e considerare che i tre indicatori presi in esame dalla Relazione sullo stato di attuazione della legge n. 194 del 1978 (offerta del servizio in relazione al numero assoluto di strutture disponibili, offerta del servizio in relazione alla popolazione femminile in età fertile e ai punti nascita e offerta del servizio in relazione al numero medio settimanale di interventi interruttivi della gravidanza effettuati da ogni ginecologo non obiettore) non convincono, non spiegando, ad es., il perché in Italia siano davvero poche le donne che riescono ad interrompere la gravidanza con modalità farmacologica, i motivi reali che dilatano eccessivamente i tempi di attesa dell’atto abortivo dopo la redazione del documento (che devono essere contenuti rispetto al limite dei 7 giorni che la norma prevede come pausa di riflessione) ed il perché si ricorra ancora, specie nelle Regioni del sud, al raschiamento uterino (più del 30% delle IVG) quando esistono opzioni terapeutiche meno cruente.
 
Facendo anche chiarezza su quanti sono i contratti a gettone che le articolazioni funzionali del Servizio sanitario nazionale sono costrette ad attivare per garantire la funzionalità dei servizi, quali sono davvero i costi aggiuntivi messi a bilancio per avvalersi dell’apporto professionale di medici non obiettori, quali sono le eventuali misure organizzative messe in campo per garantire la presa in carico della donna prima e dopo l’atto interruttivo della gravidanza, quale è l’impegno realizzato dagli obiettori per prevenire l’interruzione della gravidanza, quali e quante sono le iniziative formative realizzate a livello locale per sensibilizzare i professionisti facendo chiarezza sull’oggetto dell’obiezione e quali sono le idee espresse da chi realmente accede a questa pratica terapeutica per migliorare il servizio.
 
Servirebbero, infatti, altri e più precisi indicatori di processo e di esito per capire davvero la dimensione reale dei problemi che, periodicamente, i media segnalano all’attenzione pubblica in seguito alle numerose denunce di disservizio denunciate dalle donne italiane rinunciando ad indicatori poco sensibili e, a me pare, costruiti appositamente per consolidare un’idea di fondo: che, nel nostro Paese, la salute riproduttiva della donna non è in alcun modo compromessa dal numero elevato dei medici obiettori, che la più ridotta schiera dei non obiettori è comunque in grado di far fronte alla richiesta della donna stessa di interrompere volontariamente la gravidanza e che essi non sono assolutamente discriminati sui luoghi di lavoro.

Quarto snodo: ma siamo proprio sicuri che il diffuso non facere dei medici e degli altri professionisti della salute riguardo agli interventi interruttivi della gravidanza risponda a criteri di autenticità coscienziale e non ad altri moti dell’animo umano? Senza pensare al sabotaggio confessionale della norma, siamo, cioè, certi che essa sia una testimonianza pubblica veritativa e non un’opzione di comodo per sottrarsi ad una attività davvero onerosa sul piano dell’impegno richiesto al professionista anche a fronte dei crescenti carichi di lavoro che gravano su questi professionisti?

La questione è ampia e tocca diversi aspetti, amplificati dalla assoluta carenza di studi osservazionali che sarebbe doveroso promuovere a livello locale garantendo lo stretto anonimato degli intervistati. Tuttavia, provando a contenerla, è chiaro che essa risente della discutibilissima scelta legislativa del 1978 che, purtroppo, si è ben guardata dal bilanciare il non facere astensivo con l’esigenza di pretendere dall’obiettore una prestazione sostitutiva trasfigurando l’eccezione in una prassi generalizzata: si obietta, cioè, senza che lo Stato pretenda il pagamento di un prezzo veritativo che, peraltro, laddove la nostra scelta morale incrocia gli altrettanto legittimi interessi e diritti della donna, dovrebbe essere non certo simbolica.
 
Il non facere astensivo coscienziale dovrebbe essere, infatti, bilanciato dalla (legittima) pretesa di una prestazione sostitutiva che, oltre a dare autenticità e robustezza alla scelta individuale non essendo consentita alcuna intrusione sulla privacy personale come era stato inizialmente previsto per il rifiuto al servizio di leva, dovrebbe perseguire proprio quelle attività che l’obiettore ritiene incompatibili ed inconciliabili con il suo foro interiore.
 
Dedicando, ad esempio, il tempo richiesto dall’atto interruttivo della gravidanza (che non è solo quello chirurgico perché la donna richiede comunque di avere una continuità nella sua presa in carico prima e dopo l’atto abortivo) alle attività dei Consultori familiari, all’educazione sessuale dei giovani fatta nelle scuole ed alla prevenzione delle gravidanze indesiderate. Pretesa che dovrebbe essere normativamente prevista per non mettere a repentaglio la tenuta dell’ordine costituito (e la stessa tassatività dell’ordinamento) e, in ogni caso, ragionevolmente richiesta ad ogni dipendente pubblico dall’organizzazione sanitaria di appartenenza. La cui maturità si misura anche in questa assunzione di responsabilità che non è certo il tentativo di una illegittima intrusione nella privacy dei singoli ma di dare ad essa una solidità veritativa provando a bilanciare i diritti inviolabili con i doveri inderogabili.

Su questi snodi dobbiamo fare chiarezza senza l’urlo degli ultras e, molto probabilmente, è giunto il momento di fare un passo in avanti anche sul piano normativo senza cedere alle lusinghe riformistiche dell’allargare e del restringere troppo non condividendo né l’idea di chi vorrebbe dilatare l’obiezione a tutte le materie sensibili nè l’idea di chi ne auspica uno scenario di morte.

La posizione di chi difende l’obiezione di coscienza a tutti i costi e con ogni mezzo dimentica - o finge di non vedere - quali sono le sue conseguenze pratiche in quei campi della vita collettiva in cui il non facere dell’obiettore incide direttamente e nell’immediato sui diritti e sulle libertà degli altri consociati, mettendo in discussione la sussidiarietà delle istituzioni pubbliche e la stessa idea di solidarietà che ne rappresenta le basi fondative; perché l’esercizio di ogni nostro diritto di libertà deve di necessità fare i conti con l’idea di solidarietà e di mutua cooperazione che tiene assieme le maglie di una collettività nella cui rete coesistono aspetti culturali e umani profondamente diversi.
 
Dando rilievo al fatto che il loro esercizio pratico sarebbe puramente teorico senza questa prospettiva di fondo che è la sola a porci nelle condizioni di poter realmente esercitare i diritti e le libertà in un contesto concreto e vitale e non su un’isola deserta. Perché un conto è vivere da soli su di essa essendo le nostre libertà soggette al solo vaglio condizionato dalla variabilità ambientale e dalle nostre necessità fisiologiche; un altro è, invece, scegliere responsabilmente di compiere il nostro arco di vita in un contesto collettivo dinamicamente ordinato dove gli orientamenti filosofici, religiosi e morali restano diversi e dove, proprio a causa di questa diversità, la scelta democratica durevole e sicura non è quella di agire con i mezzi della repressione ma con la cultura della sussidiarietà, del rispetto, della non discriminazione, della reciprocità e della solidarietà.
 
Coltivando la non illusoria certezza che l’idea di giustizia è fatta sì di diritti e di libertà di base iscritte in ogni persona umana ma che esse, proprio perché siamo esseri umani, si devono relazionare, in prospettiva conciliante, con le ragioni pubbliche, con gli interessi collettivi, con i doveri inderogabili e con un’equa uguaglianza delle opportunità concesse a tutti. Perché la loro parità, spesso annunciata a voce, viene troppo spesso tradita nei fatti. Senza quest’idea di fondo ciò che viene compromesso è la stessa idea di democrazia e la tenuta delle sue istituzioni che devono garantire (e promuovere) le stesse libertà di base e le stesse opportunità a tutti i consociati, senza discriminazione alcuna ed in termini conciliativi.

La conseguenza è che questa difesa ad oltranza non convince appieno, non tenendo in alcuna considerazione né gli aspetti che fanno da fondamento teorico all’idea della democrazia liberale né, almeno nel nostro Paese, gli effetti prodotti dall’elevatissimo (aberrante) numero di medici obiettori non chiamati a pagare alcun onere per la loro testimonianza pubblica.

Tuttavia, qualche ragionevole critica deve essere anche mossa anche alla tesi contraria. Chi afferma che l’obiezione di coscienza è un lusso che non ci possiamo più permettere forza, del tutto impropriamente, la perversione degli effetti pratici conseguenti al un suo utilizzo distorto che non può essere sempre interpretato in sola chiave confessionale. Arrivando al punto da considerala, addirittura, un temibilissimo avversario dell’ordine e della legalità costituita dalla maggioranza e così scartando, frettolosamente, quella prospettiva teorica (non solo costituzionale ma anche antropologica) che deve essere salvaguardata e difesa.
 
Perché negare il valore della coscienza ed il diritto di ogni essere umano ad avere una coscienza è come amputare la persona umana di un suo tratto costitutivo specifico, individualizzante, irripetibile, anche se questo non significa certo posizionarla in uno spazio assiologico di ordine metafisico (o trascendente) ma storicizzarla nella trama dei valori costituzionali e all’interno della stessa idea di dignità. Considerando, quest’ultima, non già come un (ulteriore) diritto che si affianca, per così dire, agli altri diritti e libertà sancite dalla trama degli ordinamenti ma come quel qualcosa che le caratterizza in maniera ordinata e che consente il loro effettivo esercizio dentro il vivere collettivo.
 
Dando forma, spessore e volume alla democrazia che non è, certo, un vuoto di relazioni, di nessi e di significati, a prescindere dai condizionamenti metafisici, filosofici e politici religiosi che su di essa vanno comunque ad incidere. E la cui asticella è stata posta, dai nostri Padri costituenti, in una direzione straordinariamente performante che non possiamo trascurare.
 
Dunque, entrambi i lati estremi dell’accesa disputa che il dibattito italiano registra sull’obiezione di coscienza non convincono appieno. Perché il primo forza la prospettiva teorica ed antropologica della coscienza e della libertà del suo esercizio senza considerarne gli effetti pratici e la circostanza che la preminenza dell’una non può certo decretare la sconfitta dell’altra; e perché il secondo enfatizza le conseguenze pratiche del non possum coscienziale al punto, poi, da metterne in discussione la stessa legittimità del diritto di obiettare. Nella prima posizione prevalgono gli aspetti teorici a discapito degli effetti pratici; nella seconda si amplificano, invece, questi ultimi ovattando, di conseguenza, gli aspetti della teorica costituzionale e della filosofia del diritto.
 
Entrambe dimenticano però una questione centrale del vivere democratico
: che il diritto di ogni persona umana ad avere e ad esprimere la sua coscienza deve essere salvaguardato pur mantenendolo nel ristretto spazio perimetrale offerto dall’eccezione derogatoria dell’interposizione affidata al legislatore dell’urgenza che è chiamato a contenere quegli abusi numerici così preoccupanti registrati, almeno nel mondo sanitario, nel nostro Paese.
 
Attraverso un doppio binario di tutela: (1) riconoscendo uno spazio ed una tutela generale ai moti dell’anima quando gli stessi non vanno ad incidere sull’esigibilità dei diritti di terzi, purché gli stessi non siano fonte né di disuguaglianze né di discriminazioni; (2) ed una tutela particolare nell’ipotesi in cui il non possum dell’obiettore possa rappresentare un ostacolo reale e concreto alla soddisfazione e garanzia di questi diritti.
 
Perché, in questa seconda ipotesi, l’obiezione deve continuare ad essere una eccezione stabilita dal legislatore dell’urgenza chiamato al difficile compito di disciplinare la deroga anche se questo non significa ridurre né il livello di garanzia costituzionale assegnato alla coscienza né il diritto di ciascun essere umano ad avere una coscienza.
 
Per rimanere tale, è pacifico che l’eccezione deve essere garantita e salvaguardata da qualcuno. Non certo dai diversi gruppi identitari ma dalla maggioranza parlamentare chiamata, nella prudente attività di interposizione, al difficile compito di caratterizzare il reale conflitto costituzionale senza cedere alle pressioni confessionali, come è avvenuto nel campo degli interventi di procreazione medicalmente assistita quando gli stessi (almeno inizialmente) non ponevano certo in discussione la possibilità di intervenire sugli ovociti fecondati.
 
Disciplinando il suo esercizio pratico, nelle ipotesi in cui ciò è realmente necessario, con vincoli procedurali non solo legittimi ma soprattutto produttivi di effetti pratici, bilanciando, sempre e comunque, i diritti inviolabili con i doveri inderogabili e ricercandone un loro, non sempre semplice, punto di equilibrio. Per non farla diventare un’opzione di comodo o una vera e propria forma di lotta politica perpetrata con la resistenza e con la disubbidienza civile che sono altra cosa rispetto al non facere obiettorio.
 
Ed insistendo, ancora, sulla prestazione sostitutiva che mi sembra essere il solo strumento che può essere legittimamente usato nell’interposizione perché la coscienza mantenga viva la sua struttura veritativa, non essendo consentito alcun esame intrusivo nel vaglio coscienziale da parte di chicchesia. Senza verità la coscienza si svilisce, perde forza e vigore, si trasforma nei fantasmi più o meno spaventosi ma comunque sempre temibili dell’egoismo imperante o dell’ipocrisia diffusa, perdendo così il suo nucleo genetico connotativo.
 
Fabio Cembrani
Direttore U.O. di Medicina Legale, Trento

25 febbraio 2017
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