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Medici, tocca a noi cominciare a ripensare il nostro ruolo 

di Pietro Cavalli

28 MAR - Gentile Direttore,
era tutto scritto, a pensarci bene. Eravamo nel 1923 quando Jules Romains dava alle stampe “Il dottor Knock, ovvero il trionfo della medicina” (chi si ritiene sano è solamente un individuo che ancora non sa di essere malato) anticipando di molto l’affermazione di Henry Gadsen, Direttore Generale di Merck & Co., che nel 1977 candidamente sosteneva: “Il nostro sogno è produrre farmaci per le persone sane. Questo ci permetterebbe di vendere a chiunque”. Ad oggi ci siamo pure dimenticati il termine “disease mongering”, coniato anch’esso verso la fine degli anni ’70 e che significa, tra l’altro, la necessità di nuove diagnosi per troppe condizioni (non malattie).

Un recente esempio, sotto gli occhi di tutti e nell’indifferenza generale, è quello di tramutare i normali turbamenti adolescenziali in una condizione patologica che prende il nome di disagio e quindi di dirottare sul “supporto psicologico” molti dei fondi dei quali avrebbe bisogno la Sanità pubblica. Anche individuare alcuni normali aspetti della vita quotidiana come condizioni da trattare con intervento medico e farmacologico fanno ormai parte del nostro bagaglio culturale. Siamo alfine arrivati alla realizzazione della profezia “vivere da malato per poter morire da sano”, in una condizione che non ha mai visto alcun momento di riflessione, alcuna critica, alcuna proposta da parte di noi medici.

Noi che abbiamo assistito passivamente al passaggio da una medicina high touch ad una medicina high tech ed abbiamo contribuito non poco a separare, anche nei fatti, il concetto di “curare” da quello di “prendersi cura”, cedendo ad altri la dimensione relazionale con il paziente per concentrarci su quella tecnologica.

Certamente la antica definizione del medico ippocratico “vir bonus, sanandi peritus” ha perduto la prima parte per concentrarsi quasi esclusivamente sulla seconda. E poi, ancora più recentemente, l’efficienza e l’efficacia dell’agire del medico sono diventati i mantra di una professione imbrigliata da Regolatori troppo spesso succubi di un potere politico del tutto estraneo ai reali problemi della Sanità pubblica.

È una condizione, la nostra, che parte da lontano e della quale però non possiamo solamente definirci “vittime del sistema”. Adesso che le contraddizioni di un ruolo e di una professione, quella medica, stanno venendo al pettine, adesso che la complessità della “questione medica” e di una professione definita “impareggiabile” da Ivan Cavicchi, ci stanno esplodendo tra le mani, adesso che il “conflitto medico-paziente” sta progressivamente sostituendo il “rapporto medico-paziente” e che rischiamo tutti di finire stritolati da una Sanità tesa esclusivamente al profitto, non possiamo più far finta di non accorgerci di una situazione che promette solo di peggiorare.

D’accordo, la colpa di tutto questo è di una sanità pubblica gestita malissimo, di un governo spesso vergognoso da parte delle Sanità regionali, di un’utenza prepotente e male informata, di un contesto in cui non esistono doveri ma solamente diritti, nella ragionevole previsione di affidare la Sanità alle mani delle Assicurazioni per finire come negli USA, dove solo chi ha i soldi può essere assistito. È giusto allora sottolineare il silenzio e l’assenza dei nostri rappresentanti, di una Federazione ordinistica che ha da troppo tempo evitato la discussione proposta molti, troppi anni fa da Ivan Cavicchi, magari tenendo conto dell’occupazione degli Ordini professionali da parte di un Sindacato dall’incomprensibile ruolo.

È peraltro anche corretto riconoscere che alcuni colleghi appartenenti a più di un Ordine provinciale (valgano per tutti le citazioni di Piazza e Ioppi) si sono posti il problema di una necessaria discussione sulla attuale complessità dell’agire del medico.

Però non si può sempre attribuire ad altri colpe e responsabilità che sono anche nostre. La cosa tremenda è che noi medici o non ci rendiamo conto della fossa in cui stiamo scivolando oppure la cosa non ci interessa proprio. Credo che sia necessario ripensare il nostro ruolo, prima che altri ci costringano a diventare “server”, come giustamente prevede Ivan Cavicchi. Si potrebbe anche iniziare dalle cose più semplici, magari non sentirsi i più bravi di tutti perché arruoliamo pazienti per sperimentazioni cliniche progettate e gestite da altri e di considerare i malati solo in termini di randomizzazione; magari smettere di delegare ad altre figure professionali gli aspetti relazionali con i nostri pazienti: il rapporto medico-paziente non è un aspetto secondario della nostra professione ed il suo recupero è l’unica arma che possediamo per far fronte ad una crescente aggressività nei nostri confronti.

Peraltro, la Medicina, come tutto il resto, procede per cambio di paradigma ed il prossimo, peraltro già in corso, sarà il ricorso all’Intelligenza Artificiale (AI). Teniamo presente però che la IA sarà disponibile non solo per che esercita la Medicina, ma anche per chi ricorre al medico e quindi per un’utenza già aggressiva con l’intelligenza normale. Il rischio è allora quello di aggravare ulteriormente la nostra attuale situazione conflittuale. Insomma, ognuno è artefice del proprio destino e se noi per primi non riflettiamo sulla nostra attuale condizione, mi sembra molto difficile che altri possano darci una mano.

Pietro Cavalli
Medico

28 marzo 2024
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