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Infermieri e medici. Un accordo nazionale per non farsi la guerra

di Chiara D'Angelo

16 APR - Gentile direttore,
vorrei intervenire sulla proposta di accordo interprofessionale esplicitata in quattro articoli, del prof. Ivan Cavicchi  e farlo partendo principalmente da due, ma non uniche, considerazioni. Innanzitutto per l’infermieristica italiana non è più procastinabile il superamento dei limiti che derivano dal gap tra norma e prassi, fonte di molti disagi degli infermieri e ostacolo al vero e pieno esercizio del proprio mandato professionale.
 
In secondo luogo non è proponibile un’evoluzione che escluda gli altri attori del sistema sanitario o che non preveda il superamento dei conflitti interprofessionali, primo tra tutti quello tra infermieri e medici; basti pensare alle diatribe di questi giorni nel Lazio sull’apertura del reparto a gestione infermieristica See & Treat, al Santa Caterina della Rosa.
 
E’ ormai evidente, se già non lo fosse stato, che il rischio di conflitti interprofessionali esiste ed è ben presente, così come è chiaro che non è più derogabile un intervento dei decisori, politici ed amministrativi, che ricomponga le divergenze e produca, finalmente, un effetto benefico anche per la tutela della salute della cittadinanza, sui cui inevitabilmente i conflitti, per contro, si riverberano negativamente. Condivido, pertanto, le preoccupazioni della senatrice Silvestro; pur tuttavia credo che per non “farsi la guerra” sia doveroso raggiungere un accordo nazionale, in caso contrario si rischia di esportare “il conflitto” nei servizi, con tutte le immaginabili conseguenze.

Personalmente mi incuriosisce questa proposta di accordo dove la cognizione clinica è il dominio del medico e al medico va quel “poter fare” che Cavicchi chiama “governo clinico”, mentre la cognizione della cura è il dominio dell’infermiere e all’infermiere va quel “poter fare” che viene definito “gestione integrata della cura”. Questo, a mio avviso, non sottende affatto un intento di divisione bensì di differenziazione che, liberandoci dalle molte confusioni, porterebbe beneficio a tutti (il significato dei termini utilizzati da Cavicchi, a mio avviso, va attentamente ponderato). In ogni caso, teniamo ben presente che si tratta solo di una proposta, un input su cui riflettere e da cui partire per poi costruire le opportune migliorie. Non è certo responsabile aspettarsi da terzi, seppur esperti, la formula risolutiva perfetta ai propri problemi, ma senza dubbio è una buona base su cui poggiarsi, come il consiglio di un buon amico.

La proposta di Cavicchi è interessante soprattutto perché, di fatto, nonostante siano passati 20 anni (21 a settembre) dall’istituzione del nuovo profilo (DM 739/1994), la realtà operativa - salvo poche isole felici - non si è modificata di pari passo. L’evoluzione ha interessato nella pratica solo un’élite, non la grande massa degli infermieri. Questa osservazione, che svela quello che ritengo sia stato un errore strategico per la professione, mi fa dire che dobbiamo immaginare delle soluzioni che, prima di tutto, rispondano ai problemi della grande massa di infermieri e che siano questi problemi a dirigere le proposte e le azioni dei decisori.

In secondo luogo è ormai inaccettabile che splendide proposte ed evoluzioni restino perlopiù tali solo sulla carta (Legge 42/1999 docet); non ci si può e non ci si deve più accontentare di questo. Ora come ora c’è davvero bisogno di un intervento netto, deciso ed efficace che permetta alla professione infermieristica di prendere una direzione chiara ed inequivocabile.

Il comma 566 non ci aiuta in questo, nel senso che, a mio avviso, non contribuisce a fare chiarezza, motivo per cui sono sempre stata scettica verso questa norma. Ben vengano le cosiddette competenze avanzate, ma prima di queste bisognerebbe mettere gli infermieri - tutti gli infermieri - nella condizione di poter svolgere il proprio mandato senza post ausiliarietà, senza demansionamento e senza tutti i paradossi ben noti a chi calca le corsie; questi sono i veri e cogenti problemi della professione.

Due sono gli aspetti che maggiormente mi preoccupano nell’attuale situazione.

Il primo riguarda il potenziale pericolo di un divario sempre più netto tra la professione infermieristica e le altre professioni sanitarie non mediche. Lavoro quotidianamente (oltre che con medici e psicologi) con educatori professionali, fisioterapisti, logopedisti, terapisti della neuropsicomotricità, dietisti, terapisti occupazionali e tecnici di neurofisiopatologia ed è nettamente osservabile una dispercezione sia sul piano culturale (l’infermiere è ancora - ahimè - visto principalmente come un “compitiere” e il “tappabuchi” per eccellenza per ogni imprevisto, di qualunque natura esso sia) che da un punto di vista più sostanziale; infatti, a mio avviso, i profili professionali delle altre figure sanitarie non mediche sono ben chiari, ognuno esprime una sua specificità. Il profilo professionale dell’infermiere, che ritengo andrebbe rivisto, è all’insegna della vaghezza. Qual’è la specificità dell’infermiere? Il DM 739/94 riconosce l’infermiere responsabile dell’assistenza generale infermieristica; non dell’assistenza, ma dell’assistenza generale infermieristica, il che, a mio avviso, può voler dire tutto o non voler dire niente.

In secondo luogo poi è preoccupante l’accorciarsi della forbice tra infermieri e OSS; si pensi alle dichiarazioni del governatore della Regione Toscana, Enrico Rossi; ma anche le recenti delibere della Regione Lazio, fintanto che non verranno rettificate - come auspico - ne sono un esempio; un esempio che ha avuto risalto, mentre innumerevoli casi simili rimangono sottaciuti e perpetrati tutti i giorni nelle corsie dello stivale.

La proposta di Cavicchi, coerentemente con la sua idea di riformismo in sanità, vuole dare una struttura nuova, diversa, all’organizzazione del lavoro e per fare questo è necessario ripensare tutte le relazioni ed il reticolo interprofessionale. E’ necessario costruire un sistema nuovo, che funzioni con meccanismi diversi, e questo non è possibile se non riusciamo ad abbandonare la forma mentis che gli ultimi decenni di storia delle professioni e delle relazioni interprofessionali in sanità ci hanno impresso.

Anche il giudizio sulla proposta, a mio avviso, se non è liberato da questo fardello finisce fuori bersaglio. L’idea di Cavicchi è molto ambiziosa: immaginiamo una nuova sanità, daccapo. Tenendo conto di chi siamo, certo, ma costruiamo dalle fondamenta una nuova casa, non mettiamo le pezze a quella vecchia, altrimenti continuerà ad avere spifferi, a perdere acqua dal tetto, a fare la muffa. Davvero questa idea può considerarsi un arretramento, come sostiene qualcuno agitando lo spettro del mansionario (peraltro come se, nei fatti, il mansionario non fosse ancora ben vivo, vegeto e in gran forma in molte realtà – basta leggere i commenti su Infermieristicamente o in rete -)? Ribadendo ancora una volta che si tratta semplicemente di una proposta, di uno spunto da cui partire per una riflessione più profonda ed accurata, per un lavoro più raffinato, non posso che rispondere di no; non è affatto un arretramento, è un’idea di evoluzione.

Il primo sforzo è quello di fare quel passo culturale che ancora, per la sua incompiutezza, imbriglia l’infermiere alla mercé ed alla dipendenza del medico; non si tratta di un passaggio semplice, poiché muove da una concezione radicata e riguarda tutti: medici, infermieri, pazienti, società, politica.

Il fatto stesso che gli infermieri si mettano continuamente a confronto con la figura del medico è la dimostrazione, a mio avviso, che siamo ancora con i piedi in quel pantano culturale, oltre che della reale esistenza di aree grigie di competenza e di confusione nei non confini che le norme cercano, inefficacemente, di tracciare.

Intravedo nella proposta di Cavicchi un’opportunità di crescita e di coevoluzione, basate sulla oggettiva parità della dignità professionale, di cui tutti possano giovarsi ed in primis, non dimentichiamolo mai, il malato. Come infermiera ritengo sia tempo che l’infermiere sia davvero quel “professionista intellettuale, competente, autonomo e responsabile” che deve essere. Non si tratta di fare a gara a chi è più bravo, non si tratta di definire una dominanza gerarchica, si tratta di far sbocciare le potenzialità di professioni diverse, dotate di pari dignità e autonomia reciprocamente riconosciute, che concorrono a uno scopo comune, ciascuna autrice della propria, specifica, opera.

Per coesistere le professioni autonome devono necessariamente avere delle specificità che derivano dalla loro opera. Non possiamo immaginare una sanità senza i medici, né possiamo immaginarla senza gli infermieri. Dobbiamo invece immaginare (ed ambire a) una sanità in cui un complesso reticolo professionale agisce come un corpo unico, in cui ciascuno fa la sua parte, indispensabile come quella degli altri, pur governando processi di complessità diversa. Ed è proprio sul grado di complessità che si gioca, e si deve giocare, la differenziazione.

Spero che presto commenti, come quello rivoltomi recentemente in rete da un medico, del tipo “L'infermiere, il fisioterapista e il logopedista non potranno mai in autonomia decidere la salute del paziente, dovranno sempre eseguire le cure decise dal medico (…). Fattene una ragione. E' il medico l'autore della diagnosi, della cura e della riabilitazione” siano superati da un’evoluzione del senso comune e professionale. Visioni così radicali e onnipotenziali (in cui, sorprendentemente, non c’è spazio nemmeno per il paziente, che non concorda il suo percorso, ma che prende atto e si attiene delle decisioni del medico…) mi lasciano perplessa e se non riusciamo a intaccare queste incrostazioni, ci attende molto e duro lavoro per riuscire a immaginare con un pensiero nuovo. Ben venga invece una definizione integrata dei diversi ambiti di conoscenza e competenza. Si tratta di una garanzia per il malato (che ha diritto di ricevere le prestazioni sanitarie da chi è deputato ad erogarle) e di una garanzia per le professioni (tutte).

Una definizione basata sull’opera e non sulla mansione, per tranquillizzare i più preoccupati.

Già nell’attuale organizzazione del lavoro, peraltro, esiste la consapevolezza di una possibile diversa modalità; ne ha citato spesso alcuni esempi il dott. Francesco Saverio Proia:
• per partorire per via naturale oggi è richiesta la presenza del medico; di norma potrebbe bastare l’ostetrica (la gravidanza e il parto di fatto sono eventi fisiologici non stati di malattia, aggiungo io)
• per certificare l’abitabilità di un edificio o la sicurezza di un’impresa serve il medico; sarebbe sufficiente un tecnico della prevenzione;
• per fare le vaccinazioni deve esserci il medico; basterebbe l’assistente sanitaria;
• la gestione dei controlli routinari della cronicità è affidata a medici specialisti in svariate discipline; potrebbe essere svolta da infermieri opportunamente formati che riferiscono al medico i soli casi di scostamento dalla normalità;
• la cronicità psichiatrica potrebbe essere gestita valorizzando i contenuti professionali degli psicologi, degli infermieri dei tecnici della riabilitazione psichiatrica, degli educatori professionali;
• in emergenza ed in area critica alcune funzioni quali la gestione di alcune patologie o infortuni minori da codice bianco, alcune operazioni salvavita in ambulanza, l’assistenza in anestesia, potrebbero essere svolte da infermieri ad hoc formati e sulla base di protocolli concordati con i medici;
• l’ospedale per intensità di cura potrebbe dar corso a forme più razionali della attività di guardia notturna e festiva del medico con una diversa integrazione professionale con gli infermieri in turno.

Sono osservazioni che poggiano sull’attuale sistema organizzativo, ma se già qui e ora si riconosce l’esistenza di questi margini di manovra, riusciamo ad intuire la reale portata di un pensiero che riformi l’organizzazione dalle basi?
Per queste ragioni e per altre ancora che non ho ripreso in questo spazio ma che sono raccolte e corredate da relative proposte nel libro “Il Riformatore e l’Infermiere – il dovere del dissenso” l’invito è quindi, ancora una volta, a non prendere l’idea di Cavicchi come un pacchetto all-inclusive pronto all’uso, ma di considerarla uno spunto di riflessione, un punto di partenza su cui articolare ragionamenti e proposte, a cui apportare modifiche, rifacimenti, ricomposizioni, ridefinizioni e tutto quanto il confronto intelligente può portare a quella che è, solo ma tutt’altro che banalmente, una proposta.

Anzi, non “una” proposta, ma un percorso per tappe: partendo da quali problemi delle professioni si vogliono affrontare, attraverso l’analisi dei vincoli politici da rispettare (quali il rifiuto del demansionamento a catena, della decapitalizzazione del lavoro ecc.) Cavicchi suggerisce di concordare confini, ruoli e poteri delle professioni in modo coevolutivo e correlato, per poi infine scrivere un protocollo per la riorganizzazione del lavoro, giacchè è questa la tappa finale senza la quale l’intero processo si svuota di significato.

Andando più a fondo nel senso del discorso di Cavicchi, mi pare emerga chiaramente una domanda, o meglio una serie di domande: si lavora per l’accordo o per la “spallata” (come l’ha chiamata il professore)? Ci limitiamo a redistribuire delle briciole a una minoranza di infermieri o invitiamo a pranzo tutta la categoria? Abbandoniamo la Legge 42/1999 per inseguire delle “competenze marginali” o al contrario mettiamo in pista un progetto di riforma per attuarla? Sono questi i temi su cui poggiare, a mio avviso, la nuova casa, in cui discutere di governo clinico e di gestione dell’assistenza.

Dott.ssa Chiara D’Angelo
Infermiera 

16 aprile 2015
© Riproduzione riservata

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