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Nuove professioni. Tutti i rischi di una sanatoria

di Pierpaolo Mazzuia

19 LUG - Gentile Direttore,
sono uno psichiatra, vivo e lavoro nella regione governata da Debora Serracchiani, dove poco più di due anni fa ha visto la luce una riforma sanitaria davvero coraggiosa e difficile. Coraggiosa perché ha scelto di affrontare tutte le criticità legate al cambiamento dei bisogni di salute di una popolazione sempre più anziana, sola, povera e ammalata, e coraggiosa perché, per proporre le riorganizzazioni indispensabili a dare le risposte necessarie, ha scontentato i poteri consolidati che da moltissimi anni rendevano impossibile qualsiasi riforma vera, in FVG come nel Paese.
 
Di questa riforma ho apprezzato soprattutto la capacità di disporre innovazione e riorganizzazione anche laddove, inevitabilmente, si andava a toccare rendite di posizione e poteri consolidati. Il tempo ci dirà come andrà a finire, ma i primi segnali sono molto incoraggianti…
Ho citato questo esempio, perché lo ritengo la dimostrazione di una politica che non “fa inciuci”, ma va diritta per la strada della scelta necessaria per l’unico bene da avere presente, quello della Comunità che amministra.
 
In queste settimane stiamo assistendo alle battute forse conclusive in Commissione Affari Sociali della Camera delle alterne vicende del Ddl Lorenzin, nato per il riordino delle professioni sanitarie e presto trasformato in altro dagli appetiti variegati di alcuni personaggi. Per come siamo messi, per quello che c’è dato sapere, rischiamo di assistere all’ennesima manifestazione di quell’altra politica, quella che, per paura di scontentare qualcuno e perdere qualche consenso, non si preoccupa di danneggiare il sistema.
 
La previsione, contenuta nel Ddl, dell’istituzione di nuove professioni sanitarie, prescindendo da qualsiasi valutazione tecnico-scientifica (come previsto dalle leggi in vigore), rischia di aprire il campo ad una stagione di irragionevolezza (irrazionalità) e insicurezza nei percorsi di cura.
Si argomenta che tale passaggio sia reso necessario da una moltitudine di pseudo-professionisti che stanno esercitando la professione sanitaria senza titolo alcuno (di fatto abusivi).
 
È comprensibile che lo Stato cerchi il modo di superare tale illegittima condizione, ma la strada non può in alcun modo essere quella della sanatoria, calpestando i principi posti a tutela della sicurezza delle cure.
Il Paese ha già una norma che dispone in che modo è possibile riconoscere le nuove professioni sanitarie. E’ la legge 43/2006. L’articolo 5 di quella legge è una lettura interessante; fa capire come il legislatore abbia agito per mettere in sicurezza un sistema, abbia inteso mettere chiare regole contro “assalti alla diligenza” in un ambito così delicato come quello della salute dei cittadini.
Non sono sufficienti le attuali polemiche no-vax o le recenti morti di bambini non vaccinati, per far capire che uno Stato ha il dovere costituzionale di vigilare e tutelare la sicurezza delle cure?
 
E come non essere disorientati dalla incoerenza politica di un partito che, da un lato porta a casa un importante provvedimento sulla sicurezza e qualità delle cure (“Legge Gelli”) (che dispone che gli esercenti le professioni sanitarie debbano attenersi alle raccomandazioni previste da linee guida pubblicate ed elaborate da enti ed istituzioni pubbliche e private, nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche riconosciute e regolamentate dal Ministero della salute), e dall’altro vorrebbe spianare la strada al riconoscimento della professione dell’osteopata proprio saltando il vaglio tecnico-scientifico ora previsto.
In questo Paese contiamo già 300.000 cause penali di argomento sanitario, e si calcola che la medicina difensiva costi oggi al sistema pubblico più di 10 miliardi di Euro, chiari segnali di una preoccupante frattura nella imprescindibile alleanza che si deve creare e mantenere tra il cittadino e chi lo deve curare.
 
Attraverso la legge Gelli, forse, sarà possibile recuperare in parte questo rapporto incrinato, ma è necessario che la politica non permetta di trasformare l’esercizio professionale sanitario in un far-west senza regole, dove, chiunque si senta titolato a chiedere il riconoscimento, possa procedere senza ostacoli. Le scelte in sanità andrebbero sempre e solo fatte sulla base delle evidenze scientifiche, mai rispondendo a interessi di parte, a comportamenti egoistici che si rifletterebbero pericolosamente sulla comunità.
 
Se a vincere in politica è l’emozione e non la ragione, se prevale una logica volta all’inseguimento delle singole specificità, se si dà risposta alle domande urlate, si potranno soltanto generare ordinamenti scomposti che supporteranno una società frammentata. L’inseguire i diversi frammenti senza l’ambizione di proporre un minimo comun denominatore, attraverso principi di priorità generale e di compatibilità, rende inevitabile la frattura nella società e nel suo Parlamento.
 
La democrazia ha bisogno di razionalità, visione del futuro, coraggio nel dire i no necessari.
Niente spazio alle ambiguità, dunque: sulle nuove professioni vinca la scienza. La politica deve essere trasparente, rigorosa e chiara: indicare una strada, non le sue scorciatoie.
 
Un’ultima amara riflessione sull’azione mancata di Fnomceo durante tutta questa vicenda, e l’impressione che sembri essersi risvegliata solo ora, in occasione del ddl vaccini, l’intenzione di vigilare a tutela della salute dei cittadini. Non riesce a consolare la discussione avviata sul tema vaccinazioni: possibile che la professione medica preferisca rivendicare sicurezza nelle cure solo quando discute di intradermica fatta in farmacia?
 
Pierpaolo Mazzuia
Psichiatra
Direttore Centro di Salute Mentale - FVG


19 luglio 2017
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