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Dalla Carta di Firenze al decalogo di Cittadinazattiva

di Antonio Panti

13 NOV - Gentile Direttore,
nell'ormai lontano 2004 un gruppo di esperti nelle varie discipline a contatto col paziente redasse un documento cui fu dato il nome di "Carta di Firenze". Ci riunimmo infatti nella sede del maggior ospedale fiorentino. Il senso del testo è di per sé chiaro e se ne ho proposto una nuova pubblicazione è perché da un lato temo che la recente proposta di Cittadinanzattiva abbia la stessa sorte di quella di allora, cioè un sostanziale disinteresse, dall'altro perché resto inguaribilmente convinto che "gutta cavat lapidem" e quindi che tutti questi sforzi non siano vani.
 
Il rapporto tra medico e paziente è effettivamente cambiato anche se non proprio nel senso cui aspiravamo, anche per l'influenza del web e di un clima sociale fortemente trasformato.
 
Di quelle raccomandazioni, che allora pensammo come punti fondamentali per garantire la sostanziale parità del rapporto, la più importante, tanto che è inserita nel Codice Deontologico dei medici, è che "il tempo della relazione è tempo di cura".
 
A prenderla sul serio bisognerebbe cambiare alla base la contrattualistica medica, fondandola non sul rapporto tra orario e numero di prestazioni, bensì sul risultato in termini clinici e di compliance, compresa la resilienza e il coping del paziente.
 
Comunque, l'intento principale degli estensori della Carta, era formativo nei confronti di tutto il personale professionale impegnato nella cura e, ancor più, verso i giovani colleghi e gli studenti; un compito educazionale nel "potenziamento" del ruolo del paziente nelle decisioni che lo riguardano e della capacità del medico di porre attenzione ai valori e alle preferenze del paziente nel setting clinico.
 
In un'epoca di profonda e travolgente trasformazione della medicina, dominata da un esasperato tecnicismo e sempre più affidata ai fasti dell'intelligenza artificiale, insegnare sia la relazione coll'uomo, che è una macchina complessa dominata da sentimenti e emozioni, che la malattia non si risolve mai nel mero organicismo, ci sembrò allora e ci sembra tutt'oggi un tentativo per mantenere viva la sostanza più vera della medicina, l'aiuto all'uomo nella sofferenza.
 
Mi auguro che questo testo sia ancora letto e ripensato e che formi la base di qualche iniziativa collaborativa tra medici e cittadini e che sia utile per sviluppare un dibattito ancora lontano dalla soluzione.
 
Antonio Panti

13 novembre 2017
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