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Carenza medici. Il problema non è il numero chiuso

di Pierino Di Silverio e Maria Gabriella Coppola (Anaao Giovani)

17 SET - Gentile Direttore,
si sente scrivere e parlare negli ultimi giorni di abolizione del ‘numero chiuso’ alla facoltà di Medicina e Chirurgia. Per quanto abbiamo provato a carpire l’utilità di una tale proposta, non siamo riusciti a trovarla. Nella nostra spasmodica ricerca abbiamo invece reperito una breve, ma interessante cronistoria del numero chiuso.
 
La storia del numero programmato (e non chiuso come erroneamente si scrive) è lunga più un secolo. Fino al 1923 per entrare nella facoltà di medicina e chirurgia occorreva aver frequentato il liceo classico. Solo dal 1923 anche gli studenti provenienti dal liceo scientifico ebbero la possibilità di partecipare. Il grande passo però fu fatto l’11 dicembre del 1969, quando l’ingresso alla facoltà venne garantito a tutti i possessori di un diploma di maturità.
 
Tuttavia l’accesso libero aveva provocato, negli anni, un aumento spropositato del numero di medici rispetto alla richiesta effettiva di personale.
La situazione cambiò nella seconda metà degli anni ’80, quando l’Unione Europea pose l’accento sulla necessità di assicurare, in tutti i paesi membri, un certo standard qualitativo dell’istruzione universitaria.
 
In Italia dobbiamo la prima decisione ufficiale sull’introduzione di un numero programmato nel 1987, quando venne introdotto il decreto ministeriale elaborato dal ministro Ortensio Zecchino, in relazione alla capacità delle strutture di ospitare gli studenti, alla disponibilità dei professori e alla possibilità di svolgere laboratori e lezioni didattiche a piccoli gruppi.
 
L’introduzione del numero programmato quindi fu una necessità, imposta dall’esigenza di migliorare le condizioni formative del medico, e per assicurare, come previsto dall’art.32 della Costituzione, una equità di cure di qualità in tutto il territorio italiano.
 
Nonostante il numero programmato, ci ritroviamo però oggi in una situazione paradossale. Con un tasso di laurea a medicina del 78% nei 6 anni e del 18.5% fuori corso, si laureano annualmente circa 9000 colleghi.
 
Di questi però, solo 6700 per l’area medica e 1000 circa per la medicina generale troveranno sbocco lavorativo. La situazione va avanti ormai da almeno 4 anni. Tale miopia gestionale ha prodotto, per l’anno accademico in corso, 16000 partecipanti circa ad un concorso per l’accesso alle scuole di specialità che metteva a bando 6934 posti, alimentando una sacca di medici potenzialmente o di fatto inoccupati o sottooccupati d circa 10000 unità. Se guardiamo oltre la specializzazione la situazione non migliora, ma diviene paradossale.
 
Basti pensare al fatto che sono circa 5000 gli specialisti che ogni anno conseguono il titolo, ma solo il 70% sceglie la carriera ospedaliera pubblica, ovvero circa 3500 unità. Le cessazioni però (ovvero i pensionamenti) superano annualmente i 4700. Possiamo parlare di una clessidra formativa più che di un imbuto, che da un parte investe economicamente in troppi studenti, dall’altra sforna pochi specialisti.
 
Alla luce di queste considerazioni puramente tecniche e non pregiudiziali, fondate su dati di fatto incontrovertibili, ci chiediamo come sia possibile oggi parlare di abolizione di numero programmato a medicina soprattutto per risolvere un problema di carenza di medici che si rende evidente soprattutto nel percorso post-laurea. Occorre invece ricercare soluzioni realistiche a breve, medio e lungo termine.
 
Aumentare i posti in specialità come punto di partenza, ripensare il percorso formativo pre e post laurea introducendo gli ospedali di insegnamento, in quanto le università, in cronica carenza di personale docente e di infrastrutture, non riescono sopperire alle esigenze formative dei giovani studenti e dei giovani medici.
 
Occorre programmare fabbisogni realistici basati sulle esigenze del territorio e degli ospedali considerando le sacche di precariato, di lavoro atipico che oggi, nonostante non vengano considerate nel computo delle carenze, sono medici che esistono, sopravvivono e reggono un sistema sanitario altrimenti in ginocchio da anni.
 
Pensare all’abolizione del numero programmato come panacea di un male interiore che fonda le proprie radici in anni di mancata programmazione è come cercare di catturare uno squalo con una lenza.
 
Si rende invece evidente la necessità di riformulare una corretta programmazione per non creare in futuro sacche di inoccupati e sottooccupati di lusso, ma anche soprattutto per assicurare che i medici che le università sforneranno possano avere standard di preparazione di alta qualità.
 
Le risorse economiche purtroppo sono ormai da anni ridotte all’osso. Basti pensare che per la formazione spendiamo 380 euro a testa (lo 0,17% del PIL)contro i 1.632 della Francia, la francia (lo 0.36% del PIL). La soluzione paventabile sarebbe quella di rivolgersi dunque ai fondi europei. Ad oggi nessuno stato in economia avanzata conta di farcela con le proprie risorse.
 
L’Italia però non brilla in termini di sfruttamento delle risorse europee: è seconda in Ue per fondi strutturali ricevuti da Bruxelles, ma è sestultima su 28 per utilizzo dei soldi ricevuti. (La media Ue è di un 6% di fondi spesi, la Penisola è ferma al 3%). Il tasso di spesa italiano per i fondi di sviluppo regionale Fesr e sociale Fse risulta ancora fermo fra il 5 e il 7% (contro una media Ue del 9,7 e del 12%).
 
Eppure la nostra Penisola è seconda in termini di quantità di fondi erogati. Ad oggi inoltre, per il programma Health 2014-2020, la rilevazione comunitaria sui fondi strutturali europei mostra che gli unici Paesi che non hanno rispettato il livello di spesa stabilito con uno scostamento superiore al 20% sono stati la Grecia e l’Italia.
 
Ricordiamo che entro il 31 dicembre di quest’anno regioni e ministeri italiani dovranno spendere 3,6 miliardi di fondi strutturali europei, assegnati con la programmazione 2014-2020 attraverso il Fondo europeo per lo sviluppo regionale (Fesr) e il Fondo sociale europeo (Fse). Per chi non ci riuscirà scatterà la tagliola del disimpegno automatico in base alla “regola N+3”: se entro tre anni dall’impegno di spesa indicato dalla regione o dal ministero che gestisce fondi strutturali non è stata presentata la domanda di pagamento alla Ue, Bruxelles “cancella” automaticamente (salvo alcune eccezioni) la relativa quota di finanziamento.
 
Scontiamo purtroppo agli occhi della Commissione europea, l’organo di vigilanza riguardo le spese comunitarie che può decidere di bloccare i finanziamenti, innanzi tutto l’incapacità progettuale delle amministrazioni nazionali e locali, che spesso neppure prendono in considerazione i fondi a esse destinati. Ma non mancano le lacune nella gestione e le pesanti irregolarità non rettificate nelle dichiarazioni di spesa degli enti di casa nostra.
 
Le cause principali del mancato utilizzo dei fondi europei sono di quattro tipi:
- scarse competenze degli enti locali in euro-progettazione, a livello legale, amministrativo, civilistico, economico-finanziario e tecnico-gestionale;
- deficit di programmazione di medio-lungo termine;
- scarso raccordo istituzionale e criticità connesse alla governance dell’innovazione;
- eccessiva frammentazione dimensionale e territoriale dei progetti, con il conseguente rischio di proliferazione di procedure, obiettivi e misure e l’appesantimento del lavoro amministrativo-burocratico.
 
Un quadro prospetticamente non entusiasmante. Eppure le risorse ci sono. Come spesso accade la soluzione potremmo averla in casa, investendo in professionalità in grado di gestire i fondi europei. Solo da qualche mese sembra che il nuovo governo voglia prender in considerazione i dati e le possibili soluzioni ad un problema che Anaao da anni cerca di presentare al Legislatore.
 
Meglio tardi che mai, diremmo. Ma memori del passato, delle promesse non mantenute tipiche delle nostre classi dirigenti, memori del cambiare tutto per non mutare niente tipico dei quadri istituzionali politici e di governo, preferiamo ad oggi rivederci, in una trasfigurazione del nostro essere sindacato, in San Tommaso, non solo per la disperazione che induce l’essere umano alla preghiera quando ogni altra forma di umana soluzione sembra non esistere, ma quanto per la caratteristica di non credere senza aver toccato con mano…con la speranza di non restare delusi, per l’ennesima volta, con l’ennesimo governo, mentre altre decine di migliaia di giovani colleghi rinunciano ad un sogno tutto italiano…Lavorare per gli altri ..
 
Pierino Di Silverio
Responsabile Nazionale Settore Anaao Giovani
 
Maria Gabriella Coppola
Responsabile Aziendale Settore Anaao Giovani ASL NA 1

17 settembre 2018
© Riproduzione riservata

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