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Fantozzi e il federalismo


19 MAG - di Cesare Fassari
 
Salvo ripensamenti, legati soprattutto all’incertezza del quadro internazionale, i decreti attuativi del federalismo fiscale dovrebbero arrivare presto in Parlamento. Per molti, e non a torto, quella sarà la vera riforma federale senza la quale lo scossone costituzionale del titolo V sarebbe destinato a restare per sempre un’anatra zoppa.
Il perché è evidente. Il titolo V ha innalzato le Regioni a soggetto legislativo primario, costituzionalmente competente in materie importanti, e tra queste la sanità. Ma i cordoni della borsa sono rimasti a Roma. In più, e lo abbiamo visto con i piani di rientro, i ripiani a piè di lista a spese dello Stato sono ormai solo un dolce ricordo. A questo punto è evidente che le Regioni si trovano nella condizione di poter legiferare, poter decidere come spendere e per che cosa ma il borsellino non è nelle loro mani, come non lo è la leva fiscale per alimentarlo.
Da qui l’attenzione spasmodica della Lega e delle Regioni (in realtà solo di quelle del Nord) di ottenere anche la prelazione sulle tasse e i tributi versati dai propri cittadini, salvo lasciare a Roma quello che serve per una parvenza di solidarietà fiscale. D’altra parte gli immensi, ma poveri, territori del Sud non hanno alcuna intenzione di farsi scannare senza vender cara la pelle. E i loro messaggeri presso palazzo Chigi non mancano occasione per ricordare che se il Nord è della Lega, il Sud è di chi lo tratta come si deve. E così le rassicurazioni, sul fatto che con il federalismo fiscale nessuno sarà penalizzato, fioccano come le prime margherite di questa tardiva primavera.
Da un lato il ministro Fazio, che si dice certo che con il federalismo fiscale “non ci saranno riduzioni di risorse per nessuno”. Dall’altro il ministro Sacconi che dice che “ci sarà una gestione più efficiente dei servizi socio sanitari integrati che consentirà di spendere di meno dando di più”. Per poi chiosare, entrambi, che la vera leva al rigore sarà l’introduzione del “fallimento politico” delle amministrazioni incapaci. Insomma quel “chi sbaglia paga” che ormai sembra piacere a tutti.
Come far sì che si spenda meno dando di più, senza ridurre il monte risorse attuale, appare però francamente un mistero. Che si scioglierà, forse, solo quando saranno finalmente messe appunto le cifre e quantificati i costi, i risparmi e le compatibilità della riforma.
Come un’incognita restano i famosi costi standard. Indicati come la vera panacea del federalismo fiscale grazie alla quale, livellando i costi delle prestazioni a quelli delle regioni più efficienti e finanziando esclusivamente il quantum derivante da quei coefficienti, si otterrebbe il miracolo di unire l’Italia della sanità. Tagliando gli attuali sprechi e detronizzando le inaccettabili difformità. Peccato che, già oggi, le Regioni, pur se con indicatori diversi, hanno in proporzione la stessa massa di risorse a disposizione ma ciò non basta ad evitare che qualcuno sfori il budget. Il problema, infatti, non è a monte ma a valle. È, in altre parole, nel come vengono spesi i soldi e nelle diverse capacità gestionali. Pensare che sia sufficiente mettere tutti sulla stessa linea di partenza per farli arrivare alla fine della corsa con lo stesso tempo, ben sapendo che le loro potenzialità strutturali sono molto distanti, è, quanto meno, irrealistico. I costi standard, semmai, possono far parte di quel set di indicatori di valutazione delle performance, utile a monitorare i risultati dei diversi sistemi sanitari, per individuare falle o inefficienze. Ma non possono essere, di per sé, la soluzione.
Terza questione assai spinosa è quella, già richiamata, della responsabilità politica. Si dice che con il federalismo fiscale la vera penalizzazione per le amministrazioni incapaci sarà il loro fallimento politico. Sembra una cosa buona. Chi sbaglia paga, per l’appunto. Ma siamo sicuri che a pagare siano i politici incapaci? Quanto accaduto nel Lazio è emblematico. La giunta Storace, dal 2000 al 2005, gestisce malissimo la sanità e accumula una montagna di debiti. I cittadini la puniscono ed eleggono la giunta Marrazzo che, per sanare i debiti ereditati, aumenta le tasse e taglia i servizi. Ma ciò non basta a rimettere i conti a posto, colpa anche di ritardi, litigi e proposte di razionalizzazione dei servizi poco incisive. E così i cittadini puniscono la compagine di centro sinistra ed eleggono Renata Polverini, che vince anche promettendo di stoppare i tagli alla sanità e di ridurre le penalizzazioni fiscali, deliberati entrambi da Marrazzo per pagare il buco di Storace. Passa un mese e mezzo dalle elezioni e la Polverini, “premiata” dal voto che ha “punito” gli eredi di Marrazzo, deve fare i conti con la bocciatura del Governo del nuovo piano di rientro regionale predisposto dal precedente commissario Guzzanti (che nel frattempo aveva preso il posto del dimissionario Marrazzo). Una bocciatura che le vieta di accedere ai fondi Fas per sanare il debito residuo che Marrazzo non era riuscito a colmare nei suoi cinque anni di gestione. A questo punto le promesse elettorali, niente tagli agli ospedali e meno tasse, la povera Polverini non sa più come fare a rispettarle. E lo spettro di un ulteriore aumento delle aliquote fiscali e di un ulteriore taglio ai posti letto e a chissà cosa ancora, si sta giorno dopo giorno materializzando per i cittadini laziali che, alla fine, in un modo o nell’altro, continueranno a pagare il conto. Morale: tre giunte, colori e persone diverse ma a pagare sono sempre gli stessi elettori. Altro che fallimento politico.
Insomma, e se trovassimo finalmente il coraggio di un Fantozzi di dire senza peli sulla lingua che il federalismo è solo “una boiata pazzesca”?


19 maggio 2010
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