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Cuore e Covid. Nei guariti dal Covid +72%  rischio di scompenso cardiaco e +52% ictus. Mortalità indietro di 20 anni per ritardi nelle cure”. L’allarme dei cardiologi Foce


A dimostrare l’aumento del rischio uno studio su “Nature Medicine” condotto su più di 150mila persone che hanno superato il virus confrontati con oltre 5 milioni di controlli sani. La ricerca ha infatti dimostrato che, dopo il contagio, il rischio di patologie cardiovascolari aumenta significativamente, anche in chi ha meno di 65 anni senza fattori di rischio come obesità o diabete. Ma c’è anche una questione meridionale della sanità. Indolfi (Foce): “Sono ancora troppe le differenze fra Nord e Sud. Vanno rinnovate anche le infrastrutture dei grandi ospedali”.

03 MAR - “Serve un cambio di rotta nell’assistenza cardiologica in Italia, perché le conseguenze dirette e indirette della pandemia stanno peggiorando la salute cardiovascolare dei cittadini. I ritardi nell’assistenza registrati nelle varie ondate pandemiche rendono concreto il rischio di un’impennata di pazienti colpiti da malattie del cuore e di una regressione della mortalità cardiovascolare ai livelli di 20 anni fa”.
 
A lanciare l’allarme la Federazione degli oncologi, cardiologi e ematologi (Foce). Uno studio pubblicato su “Nature Medicine” e condotto su più di 150mila pazienti guariti dal Covid-19 confrontati con oltre 5 milioni di controlli sani ha infatti dimostrato che, dopo il contagio, il rischio di patologie cardiovascolari aumenta significativamente, anche in chi ha meno di 65 anni senza fattori di rischio come obesità o diabete. Non solo, i pazienti guariti dal Covid hanno il 52% di probabilità in più di ictus. E il pericolo di scompenso cardiaco aumenta del 72%.
 
Uno scenario, sottolinea Foce, che impone non solo di recuperare quanto prima i ritardi accumulati garantendo le cure con la massima priorità e salvaguardando la rete dell’emergenza cardiologica, ma anche di investire più risorse in ricerca e prevenzione. Vanno inoltre eliminate le disparità tra gli standard di assistenza forniti nelle diverse Regioni, soprattutto per quanto riguarda diagnosi o interventi ad alta complessità nel Sud. E devono essere rinnovate le infrastrutture dei grandi ospedali.

“Si sta delineando un quadro preoccupante che rischia di annullare le importanti conquiste ottenute in oltre 20 anni – spiega Ciro Indolfi, Vicepresidente Foce, la Federazione degli oncologi, cardiologi e ematologi e Presidente della Società Italiana Cardiologia (Sic) – le malattie del cuore interessano 7,5 milioni di persone in Italia. In 36 anni (1980-2016) la mortalità totale per le malattie cardiovascolari si è più che dimezzata e il contributo delle nuove terapie è stato quello che più ha influito su questa tendenza. Ma la pandemia sta annullando tutti questi progressi. Non è allarmismo ingiustificato, come qualcuno ha addirittura affermato. Le nostre preoccupazioni si basano su dati certi”.
 
Il ridimensionamento dell’assistenza è stato evidenziato da una recente indagine condotta dalla Società Italiana di Cardiologia (Sic) in 45 ospedali distribuiti sul territorio nazionale in due diverse fasi, a novembre/dicembre 2021 e a gennaio 2022: il 68% dei centri ha ridotto i ricoveri elettivi (programmati) dei pazienti cardiopatici, il 50% ha diminuito l’offerta degli esami diagnostici e il 45% ha tagliato le visite ambulatoriali. Il 22% ha dovuto addirittura ridurre i posti letto in terapia intensiva cardiologica (Utic), mentre il 18% degli ospedali ha diminuito il personale medico in Utic e il 13% quello infermieristico.
 
“Durante la prima ondata della pandemia, nella primavera del 2020, i ricoveri ospedalieri di emergenza per infarti e ictus si sono dimezzati, molte persone sono morte a casa o sono sopravvissute con danni gravi al cuore o al cervello, perché gli eventi cardiovascolari gravi sono tempo-dipendenti – afferma Indolfi – questa nuova indagine avvalora i nostri timori di una ripresa della mortalità e di prognosi peggiori per infarti, ictus e scompensi cardiaci. Sono diminuite le angioplastiche coronariche, le procedure per l’impianto di pacemaker e defibrillatori, le ablazioni. Non solo. Sono stati ridotti gli elettrocardiogrammi, le ecocardiografie e i test da sforzo. Tutto questo è allarmante: i pazienti cardiopatici non hanno trovato più un’assistenza adeguata alla prevenzione e al trattamento delle loro patologie. E si stima che una persona contagiata dal Covid-19 su cinque vada incontro a conseguenze cardiovascolari”.

In Italia le malattie cardiovascolari rappresentano il 44% di tutti i decessi e la cardiopatia ischemica è la principale causa di morte (28%). Dati destinati a peggiorare in mancanza di investimenti anche nella prevenzione. “Nel 2021, c’era oltre un milione di fumatori in più rispetto al passato – continua Indolfi – il 44% dei cittadini è aumentato di peso. Inoltre, si sono registrati incrementi del 23,6% fra i maschi e del 9,7% delle femmine del consumo eccessivo di alcol in grado di mettere a rischio la salute. Malattie croniche come tumori e patologie cardiovascolari possono essere prevenute efficacemente con uno stile di vita sano, ma i cittadini devono essere informati”.
 
Possibili soluzioni concrete sono delineate in un editoriale pubblicato su “Circulation”, cofirmato dal Indolfi. “Esiste un’apparente disparità, che va risolta, tra gli standard di assistenza forniti nelle diverse Regioni, soprattutto per quanto riguarda diagnosi o interventi altamente complessi nel Sud – conclude il Vicepresidente Foce – inoltre, i finanziamenti del Recovery Fund della Commissione Europea possono consentire il rinnovo delle infrastrutture dei grandi ospedali, con particolare riguardo alla distribuzione delle tecnologie sul territorio. E bisogna investire nella ricerca. Nonostante la qualità della ricerca cardiologica italiana sia elevata, le risorse sono insufficienti. In 14 anni, i fondi sono variati dall’1% all’1,4% del prodotto interno lordo, mentre la media europea è del 2%”.

03 marzo 2022
© Riproduzione riservata

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