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Procreazione assistita. Crioconservazione, perché in Italia si usa poco


Secondo l'American Society for Reproductive Medicine produce risultati simili alle tecniche tradizionali e non può più considerarsi sperimentale: eppure la crioconservazione degli ovociti non viene usata nel nostro paese. A dirlo una ricerca di ProFert presentata al Symposium 2012 di Tecnobios Procreazione.

17 NOV - Può considerarsi promossa a pieni voti: è stato infatti a ottobre, durante il suo 68esimo Congresso in California, che l'American Society for Reproductive Medicine (Asrm) ha decretato che la pratica del congelamento non deve più considerarsi sperimentale. Eppure l’Italia è ancora riluttante ad usarla. Anche di questo si sta parlando nelle giornate del “Tecnobios Procreazione Symposium 2012”, Congresso internazionale sulla procreazione medicalmente assistita in corso a Roma e che vede riuniti più di 350 studiosi  provenienti da tutto il mondo.

Alla base della decisione dell'ASRM ci sono le Linee guida scritte dal Practice Committee della societá scientifica stessa, che hanno considerato i risultati di tutti gli studi pubblicati sull'argomento. Nel rapporto, apparso su Fertility and Sterility, si afferma che, nelle giovani pazienti il ricorso alla crioconservazione degli ovociti è in grado di produrre risultati simili alle tecniche tradizionali, in cui vengono utilizzati ovociti non precedentemente congelati.
Confrontando i numeri, infatti, non sono emerse differenze significative né per quel che riguarda il tasso di fecondazione (74% contro 73%), né nel numero di impianti effettuati con successo (40% contro 41%), e neppure nella quantità complessiva di gravidanze ottenute (55,4% contro 55,6%). “I risultati hanno fugato i dubbi di chi sospettava che le procedure di congelamento potessero inficiare la qualità dell'ovocita e, dunque, dell'intervento di procreazione medicalmente assistita”, ha affermato Andrea Borini, Presidente del Congresso e Presidente ProFert. “La letteratura indica ormai  la crioconservazione come una procedura valida per le pazienti la cui fertilità è a rischio: per la maggior parte si tratta di giovani donne che devono sottoporsi alle cure oncologiche, potenzialmente dannose per l'apparato riproduttivo”. Da qualche anno, ormai, queste pazienti possono tentare di preservare la loro fertilità attraverso un percorso di procreazione assistita. “Proprio come avviene con gli ovociti la loro età  resta comunque un fattore cruciale: anche in queste procedure, infatti, la probabilità di successo diminuisce con il passare degli anni", ha concluso Borini.

Eppure, il nostro Paese sembra invece ancora piuttosto riluttante a far propri questi passi avanti della scienza. In Italia infatti, nonostante le alte percentuali di guarigione associate ad alcune forme di tumori, quasi mai le pazienti oncologiche  in età fertile vengono  debitamente informate dell’esistenza di queste tecniche, pure  ormai consolidate. Anche se ciò potrebbe rappresentare la possibilità di avere un figlio una volta guarite.
Lo dimostra una ricerca condotta da ProFert sulle informazioni a disposizione dei pazienti onco-ematologici che ha preso in considerazione i principali centri ospedalieri italiani specializzati nella cura di leucemie e linfomi e i siti internet delle associazioni di pazienti oncologici ed ematologici. I risultati sono sconfortanti: dalla visita diretta delle sale di attesa destinate ai pazienti e ai loro familiari di quattro dei principali centri italiani di cura onco-ematologici (Milano, Bologna, Roma, Napoli)* emerge una sostanziale assenza di informazioni su questo argomento.

Il tema non è insomma affrontato in modo “pubblico”: non ci sono libretti, opuscoli o poster che indichino ai malati interessati la strada da seguire per conservare la possibilità di procreare dopo una terapia oncologica. A risultare particolarmente carente è poi lo scambio di informazioni tra i reparti che affrontano i due aspetti del problema, ovvero la battaglia contro la malattia e la qualità della vita (dunque anche la riproduzione) dopo la guarigione. Persino in quegli ospedali dove la preservazione della fertilità è uno dei fiori all’occhiello della ricerca e della clinica, non sembra esserci raccordo - in termini di informazioni disponibili - con i reparti di oncologia, dai quali proviene parte dei pazienti che potrebbero beneficiare delle tecniche di crioconservazione dei gameti. La ricerca di informazioni condotta via telefono presso tutti i principali centri di cura onco-ematologica conferma il dato raccolto nelle visite così come la ricerca condotta sui siti Internet dei principali centri clinici regionali. Le associazioni di pazienti oncologici, anche quelle specifiche nel settore dei tumori del sangue, non hanno poi a disposizione materiale informativo sufficiente che possa indirizzare i malati verso trattamenti di preservazione della fertilità. E laddove questo è presente, è spesso male organizzato e difficilmente reperibile. L'informazione non migliora passando su Internet: sia nei siti degli ospedali sia in quelli delle associazioni quando ci sono le informazioni sulla preservazione della fertilità sono poche e poco visibili.

"È evidente che siamo in presenza di una negazione di informazione per i malati", ha spiegato Borini, che ha anche presentato un dossier dal titolo “Preservare la fertilità: l'informazione negata”. "E non sappiamo per quale motivo. Se le istituzioni lo ritengono opportuno, noi specialisti possiamo infatti metterci a disposizione e condividere tutte le informazioni scientifiche di cui siamo in possesso per l'ideazione del materiale divulgativo".

17 novembre 2012
© Riproduzione riservata

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