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Malattie cardiovascolari. Pressione sistolica e diastolica 'colpiscono' diversamente il cuore

di Viola Rita

Ad ogni tipo di pressione la sua malattia: la sistolica (massima) è maggiormente associata al rischio di sviluppare emorragia intracerebrale, angina stabile ed emorragia subaracnoidea, mentre la diastolica (minima) all’aneurisma dell’aorta addominale. Il risultato, anticipato da The Lancet, sarà presentato al meeting Hypertension 2014, ad Atene dal 13 al 16 giugno

03 GIU - La pressione alta, come risaputo, è collegata ad un maggiore rischio di sviluppare numerose malattie cardiovascolari: però, a seconda che l’aumento riguardi la pressione sistolica (o ‘massima’) oppure quella diastolica (o ‘minima’), si assiste ad una variazione nel tipo di patologia a maggiore incidenza. Insomma, ad ognuno dei due tipi di pressione corrisponde l’associazione con l’incidenza di differenti tipi di malattia cardiovascolare, in base ai risultati dei ricercatori.

Ad affermarlo, oggi, è uno studio su The Lancet (Rapsomaniki et al., Blood pressure and incidence of twelve cardiovascular diseases: lifetime risks, healthy life-years lost, and age-specific associations in 1·25 million people, The Lancet, Volume 383, Issue 9932, Pag. 1899 - 1911, 31 May 2014 doi:10.1016/S0140-6736(14)60685-1); lo studio ha coinvolto oltre un milione di pazienti all’interno di pratiche di assistenza primaria. Questa ricerca è stata pubblicata in anticipo rispetto all’evento durante il quale verrà presentata, Hypertension 2014, il Joint Meeting della European Society of Hypertension (ESH) e dell’International Society of Hypertension (ISH), ad Atene in Grecia dal 13 al 16 giugno.
Ad esempio, a partire dai dati relativi a oltre 83 mila manifestazioni cardiovascolari, chi aveva una pressione sistolica (o ‘massima’) più alta presentava un aumentato rischio di emorragia intracerebrale (ictus causato da emorragia del tessuto cerebrale), angina stabile ed emorragia subaracnoidea, mentre una pressione diastolica (o ‘minima’) più elevata è un indicatore per il rischio di  aneurisma dell’aorta addominale.

Condotto su quasi un milione e trecento mila pazienti con malattie cardiovascolari, si tratta del primo studio, riferiscono i ricercatori, che indaga il rapporto tra pressione alta e 12 differenti manifestazioni di patologie cardiovascolari, in diversi gruppi di età (tutti al di sopra dei 30 anni) e agli esordi delle patologie: i pazienti sono stati seguiti in media oltre cinque anni, al fine di registrare il primo evento cardiovascolare. I ricercatori hanno inoltre calcolato il rischio di sviluppare malattie specifiche dall’età di 30 anni fino all’età di 80 anni.

"I nostri risultati non supportano l’ipotesi, ampiamente diffusa, che la pressione sistolica e quella diastolica siano associate al rischio delle stesse malattie cardiovascolari, in un ampio range di età", ha affermato il primo autore del paper, la Dott Eleni Rapsomaniki del The Institute for Health Informatics Farr Research a Londra (fonte sciencedaily.com).
Nello studio si legge anche che “l’ipotesi diffusa che le associazioni al rischio di malattie cardiovascolari della pressione diastolica e sistolica sono concordanti non è supportata dai risultati di questo studio ad alta risoluzione. Nonostante i trattamenti moderni, il carico legato all’ipertensione durante tutta la vita è resistente. Questi risultati sottolineano la necessità di strategie volte alla riduzione della pressione del sangue e contribuirà a informare la progettazione di studi randomizzati per la loro valutazione”.

Lo studio, inoltre, evidenzia una sostanziale permanenza del rapporto tra pressione alta e rischio di sviluppare malattie cardiovascolari (per un trentenne con pressione alta il rischio è del 63% contro il 46% di chi ha una pressione regolare; inoltre statisticamente nel primo caso l’insorgenza si verifica cinque anni prima).
“Con questo alto rischio durante l’intero arco della vita, la necessità di nuove strategie per ridurre la pressione arteriosa è primaria. Le nostre stime forniscono nuove vitali informazioni che possono essere utilizzate per migliorare l’approccio col paziente e il processo decisionale negli ipertesi: attualmente, le decisioni sono basate soprattutto sui rischi di infarto e ictus”, spiega Rapsomaniki. “Le nostre stime, inoltre, contribuiranno a focalizzare le linee guida e a guidare i medici riguardo alle condizioni cardiovascolari che potrebbero essere più diffuse, per le quali in lo screening e il trattamento mostrano maggiori probabilità di avere effetto”.

Scrivendo un commento collegato allo studio (sciencedaily.com), il professor Thomas Kahan del Karolinska Institutet di Stoccolma, in Svezia, ha affermato che “diversi passaggi devono pertanto essere effettuati per migliorare il trattamento e il controllo antipertensivo: la valutazione del rischio globale cardiovascolare nei singoli pazienti, il miglioramento dell'organizzazione del supporto e della formazione dei caregiver, una maggiore conformità a livello farmacologico, più elevate compliance del paziente e persistenza del trattamento prescritto, estendendo a casa il monitoraggio della pressione arteriosa e a livello ambulatoriale nell’arco di 24 ore; considerando inoltre le forme secondarie di ipertensione nei pazienti difficili da trattare e indirizzando i pazienti con ipertensione non controllata rimanente verso un centro specialistico dedicato”.

Viola Rita

03 giugno 2014
© Riproduzione riservata

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