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Erbe: tanto timore per nulla


Le disposizioni della Direttiva 24/2004/CE non riguardano il settore delle erbe in generale ma soltanto quello dei medicinali a base di erbe. Che, secondo le norme comunitarie recepite in Italia dal Dlgs 219/2006, per essere commercializzate devono dimostrare il loro utilizzo prolungato nel tempo e garantire attraverso analisi e prove accurate la loro qualità e il rispetto delle norme di fabbricazione.

27 MAG - L’allarme è scattato poco prima del 1° maggio. Una data “fatidica” per i medicinali a base di erbe poiché proprio quel giorno è entrata in vigore la direttiva 24/2004/CE, recepita nell’ordinamento italiano con il Decreto legislativo n. 219 del 24 aprile 2006. Che, a sette anni di distanza dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale europea avvenuta il 30 aprile 2004, istituisce la categoria dei “medicinali vegetali tradizionali” (quelli cioè a base di piante o estratti a uso terapeutico), stabilendo regole precise per la loro immissione in commercio. Ma generando anche forti timori in tutti i fautori del “naturale”.
La direttiva in questione (peraltro contestata già al momento della sua approvazione da parte del  Parlamento e del Consiglio europeo) infatti, non solo fornisce una definizione di cosa sia il medicinale vegetale tradizionale (“…ogni medicinale che contenga esclusivamente come principi attivi una o più sostanze vegetali o uno o più preparati vegetali, oppure una o più sostanze vegetali in associazione ad uno o più preparati vegetali…”) ma stabilisce anche una procedura di registrazione speciale per accedere alla quale il medicinale tradizionale deve dimostrare di essere stato impiegato per un periodo di almeno 30 anni, 15 dei quali all’interno del territorio dell’UE.
L’autorizzazione all’immissione in commercio non richiede prove cliniche – alla luce del lungo periodo temporale di utilizzo – o pre-cliniche, se può dimostrare la sua non nocività nelle normali condizioni di impiego. Occorrono invece prove specifiche (analisi biologiche, microbiologiche, chimico-fisiche) per la certificazione della qualità. E i farmaci in questione devono anche dimostrare di aver rispetto le norme di buona fabbricazione farmaceutica, le cosiddette Gmp (Good Manifacturing Practice).
Queste disposizioni sono apparse troppo severe e, soprattutto, onerose per le piccole aziende del settore che potrebbero avere difficoltà a seguire un iter legislativo lungo e complesso. A tutto vantaggio – è questa la tesi dei detrattori della direttiva – delle grandi aziende farmaceutiche che potranno invece continuare a vendere farmaci di sintesi destinati alla terapia delle patologie per le quali venivano utilizzati i medicinali a base “naturale”. A farne le spese sarebbero in particolare i principi attivi utilizzati dalle medicine cinese, ayurvedica o tibetana. Millenarie ma magari utilizzate da poco tempo nel territorio UE. A questi timori si sono poi associati quelli relativi al mercato erboristico. Timori che però non hanno ragion d’essere poiché le norme comunitarie riguardano nello specifico solo e soltanto le piante (e/o i loro derivati) utilizzati a scopo terapeutico. Nulla cambia, insomma, per gli integratori (che sottostanno alle norme sugli alimenti) o per gli altri prodotti erboristici: la direttiva, infatti, disciplina il farmaco e non le finalità diverse da quelle terapeutiche di una determinata pianta.

 


27 maggio 2011
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