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Dormi male? Attento al Parkinson


L’avvertimento arriva dalla Mayo Clinic: il 34% delle persone che hanno disturbi del sonno nella fase Rem sviluppa il morbo di Parkinson o altre forme di demenza entro quattro anni dalla diagnosi. Più del doppio di chi dorme normalmente.

16 MAR - Problemi del sonno legati alla fase Rem potrebbero a lungo andare portare a sviluppare il morbo di Parkinson o altri tipi di demenza. Secondo uno studio della Mayo Clinic, infatti, a quattro anni dalla diagnosi le persone che presentano deficit o disordini del sonno hanno una probabilità doppia di presentare declino cognitivo. La ricerca è stata pubblicata su Annals of Neurology.
 
Uno dei tratti distintivi della fase Rem del sonno è uno stato di paralisi diffuso, in cui si perde il controllo dei propri muscoli e dunque non ci si muove. Ma quando si ha un disturbo di questa fase, che si ripropone più volte nel corso della notte, è che i pazienti che ne sono affetti si muovono, quasi “recitando” i loro sogni. Questi disturbi possono essere diagnosticati tramite questionari, dati a persone che altrimenti sarebbero assolutamente sane. Lo studio della Mayo mette in luce proprio questo tipo di problemi con diversi livelli di declino cognitivo. “Lo studio è il primo che quantifica quale sia il rischio associato ai disturbi della fase Rem in persone sane, e dimostra che in alcuni casi lo sviluppo di demenza si può prevedere semplicemente facendo le domande giuste”, ha spiegato Brendon P. Boot, neurologo che al momento della ricerca si trovava alla Mayo Clinic e ora lavora alla Harvard University.
I ricercatori hanno osservato che circa il 34% delle persone cui veniva diagnosticato un probabile disturbo del sonno sviluppavano demenza lieve o morbo di Parkinson entro quattro anni dalla diagnosi, 2.2 volte in più rispetto a chi dormiva normalmente. Studi precedenti avevano dimostrato come questa percentuale fosse anche maggiore a cinque anni. “Comprendere quali pazienti hanno più possibilità di presentare declino cognitivo ci permette di agire tempestivamente”, ha detto Brad Boeve, co-autore dello studio. “Agire presto è vitale nel caso di patologie che distruggono le cellule cerebrali. Sebbene siamo ancora alla ricerca di trattamenti efficaci, abbiamo maggiori possibilità se cominciamo le terapie quando ancora non c’è stato un danno troppo grave”.
 
Laura Berardi

16 marzo 2012
© Riproduzione riservata

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