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Coronavirus. Fnopi: “Infermieri in prima linea, ma c’è emergenza: ne servono subito 5-6 mila in più. Richiamare pensionati è placebo”


L’Ordine richiama poi la “necessità e l’urgenza dell’infermiere di famiglia in tutte le Regioni”. Mangiacavalli: “Di fronte a una carenza di tali dimensioni poi, richiamare in servizio i colleghi pensionati rappresenta si una risposta immediata, ma un placebo rispetto alla necessaria terapia d’urto”.

04 MAR - “La situazione che stiamo vivendo in tutto il Paese e nel Nord Italia in particolare è di un’emergenza difronte alla quale nessun professionista della salute si è tirato indietro, in particolare gli infermieri che ci sono e svolgono un ruolo essenziale su tutti i fronti, dal triage in ospedale al 118, dai setting ospedalieri a bassa ed alta complessità, dall’assistenza domiciliare al dipartimento di Prevenzione”. Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (FNOPI), in primissima linea in questi giorni, fa il punto sulla situazione degli infermieri che si sono trovati dalla sera alla mattina ad affrontare un’emergenza di livello internazionale.
 
“Alcuni operano al di là delle loro forze - sottolinea la presidente FNOPI - e con la loro indiscutibile professionalità anche a rischio della propria salute, in particolare nelle zone ritenute ad alto rischio dove essendo spesso confinati e costretti alla quarantena non hanno più turni o logiche di organizzazione del lavoro, ma solo la forza di volontà, la capacità e la voglia di assistere, di essere Infermieri”.
 
“A loro va l’encomio della professione per la quale rappresentano un vero esempio”, aggiunge Mangiacavalli che contemporaneamente fa il punto sulle esigenze attuali del sistema salute.
La carenza di professionisti di cui soffre il paese, e che da tempo la FNOPI denuncia, si è fatta sentire nel peggiore dei modi con l’emergenza COVID-19 per la quale solo nell’immediato e nelle zone a maggior rischio servirebbero almeno 5-6000 infermieri in più da subito.
 
“In Italia – ricorda Mangiacavalli - ne mancano oltre 53mila, di cui la maggior parte (almeno 30mila) sul territorio, dove la soluzione ideale è quella dell’infermiere di famiglia/comunità scritta nel Patto per la salute 2019-2021, che se fosse già attuata potrebbe assistere sia i singoli che le famiglie (circa il 50% dei casi ha bisogno di quarantena domiciliare) e, proprio in casi come questi, intere comunità. Per questo ora non possiamo più perdere tempo e assume carattere d’urgenza la sua attivazione in tutte le Regioni (ne servono circa 20mila dei 30mila sul territorio). Di fronte a una carenza di tali dimensioni poi, richiamare in servizio i colleghi pensionati rappresenta si una risposta immediata, ma un placebo rispetto alla necessaria terapia d’urto: perché ne servirebbero ben di più di quelli ex pensionati o neolaureati per riportare gli organici a quel rapporto virtuoso che consentirebbe di essere in linea con le indicazioni internazionali. Il problema è che oggi gli infermieri vivono una condizione occupazionale instabile e precaria. Negli anni il SSN non ha investito abbastanza né in termini quantitativi (assunzioni) né qualitativi (tempi indeterminati e percorso di sviluppo delle competenze stabile e mirato)”.
 
Pensionati che ovviamente non sarebbero stabili (il loro tempo massimo secondo l’ultimo decreto è di sei mesi) e si dovrebbero assumere almeno altrettanti professionisti per poter far fronte non solo all’emergenza, ma alla normale amministrazione secondo parametri di qualità ed efficienza dei servizi.
 
Per la Lombardia, che ha già deciso questo tipo di misure, si tratta – naturalmente c’è da scoprire quanti di questi si dichiareranno disponibili a tornare in sevizio - di meno di 2mila pensionati tra le pensioni ordinarie e chi finora ha optato per Quota 100 e di circa 1.300 neolaureati – tra i quali una parte ha sicuramente già trovato lavoro e per quanto riguarda gli altri, potrebbero eventualmente occuparsi della gestione ordinaria dei servizi per lasciare ai più esperti l’intervento nei settori dell’emergenza - rispetto a una carenza che in ospedale è di più di 2.800 unità e sul territorio supera le 5mila.
 
Tra le ipotesi, sempre in Lombardia, c’è anche quella di semplificare le modalità di svolgimento della sessione di laurea in infermieristica 2018-2019 che consentirebbe così di avere subito a disposizione un centinaio di infermieri in più. “Le modalità di laurea – afferma Mangiacavalli - devono comunque garantire la qualità e la professionalità dei neolaureati. Al di là di questo vanno mantenuti e difesi i presupposti di professionalità, preparazione e qualità della professione, ci devono sempre essere le necessarie garanzie di tutela dell’attività che questi giovani dovranno poi svolgere e quelle per i pazienti dei quali, secondo la professione infermieristica che hanno scelto, si dovranno occupare”. 
 
In realtà la carenza di infermieri calcolata dal Centro studi FNOPI solo in quelle tre Regioni, sarebbe di oltre 5mila infermieri negli ospedali e almeno il doppio sul territorio: una cifra quindi più che doppia rispetto agli organici reperibili in emergenza.
 
Su tutto il territorio italiano gli infermieri in più per non trovarsi mai in situazioni di questo tipo dovrebbero essere quasi 22mila negli ospedali e almeno 32mila sul territorio, con Regioni dove i numeri della carenza sono minori (paradossalmente proprio Emilia-Romagna, Veneto, Friuli-Venezia Giulia ecc.) e Regioni dove invece l’assenza di organici è pesante e mette l’assistenza a rischio (in Campania sono circa il 48% in meno di quelli che sarebbero necessari, raggiungono il 55% in meno in Calabria e il 56% in Sicilia).
 
Senza contare che dal 2009 (ultimo anno senza blocchi di turn over e piani di rientro) al 2018 di infermieri il Ssn ne ha persi oltre 12mila.
 
Cosa significa la carenza di infermieri lo stiamo purtroppo vedendo nel peggiore dei modi in questo periodo e non vogliamo quindi nemmeno immaginare cosa accadrebbe nelle regioni meno virtuose con uno scenario simile a quello settentrionale. Questa emergenza, alla sua conclusione, dovrà portare il SSN a ripensarsi fortemente soprattutto in termini di investimento sul personale.
Sono i dati internazionali a parlare degli effetti: ogni volta che si assegna 1 assistito in più a un infermiere (il rapporto ottimale sarebbe 1:6) aumenta del 23% l’indice di burnout, del 7% la mortalità dei pazienti, del 7% il rischio che il professionista non si renda conto delle complicanze a cui il paziente va incontro.
 
E l’altalena di personale infermieristico su cui “dondolano” le aziende sanitarie italiane porta a un aumento di rischi per i pazienti e per gli stessi operatori: ogni infermiere dovrebbe assistere al massimo 6 pazienti per ridurre del 20% la mortalità, ma attualmente ne assiste in media 11. Nelle Regioni dove la carenza è minore 8-9, dove è maggiore si arriva anche a 17.
 
Significa mettere a repentaglio oltre alla salute dei professionisti, quella dei pazienti: un infermiere stanco e stressato aumenta del 30% il rischio di errore, organici sottodimensionati fanno crescere del 7% il rischio di mortalità tra i pazienti assistiti e solo la forza di volontà che fin qui hanno dimostrato sul campo gli infermieri, evita che tutto questo accada.
 
“Per questo - conclude - ingrazio tutti i colleghi che tutto questo lo stanno dimostrando nei fatti con il loro impegno, portato avanti con grandi sacrifici: stanchezza e sconforto sono sempre a un passo da loro che tuttavia sono pronti a tendere una mano per assistere, curare, infondere coraggio, forza e speranza a chi sta male o ha paura. Qualcuno in questi giorni li ha definiti ‘eroi’. Lo sono, ma vorrei fosse chiaro: siamo prima di tutto Infermieri che non certo da ora stiamo svolgendo la professione in condizioni difficili, ad organici ridotti e con ritorni economici inadeguati. Oggi tutto questo si sta solo manifestando con modalità eclatanti”.

04 marzo 2020
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