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La sintesi del rapporto


29 APR - Continua la crescita della popolazione, ma non grazie alle nascite – Anche quest’anno i risultati del Rapporto danno conferma delle tendenze emerse negli anni scorsi: si riscontra un tendenziale aumento della popolazione residente in Italia imputabile, sostanzialmente, alla componente migratoria. Il saldo medio annuo è in questa edizione del Rapporto pari a 4,2 per 1.000 mentre nella precedente edizione era 4,8 per 1.000. Le Regioni che non crescono (saldo totale negativo) sono solamente tre: Basilicata (-2,5 per 1.000), Molise (-0,6 per 1.000) e Liguria (-0,1 per 1.000); anche in questa edizione del Rapporto si riscontra un saldo naturale medio (relativo al biennio 2010-2011) che si mantiene pressoché costante rispetto al biennio precedente e si attesta su livelli ancora di segno negativo, anche se, per alcune Regioni, è prossimo allo 0; invece il saldo migratorio è positivo grazie, soprattutto, alla capacità attrattiva delle regioni del Centro-Nord.
Anche il movimento migratorio interno al Paese ha confermato i trend già evidenziati negli anni precedenti, ovvero il movimento in uscita dalle regioni meridionali (escluso l’Abruzzo).
Le regioni più “abbandonate” dai propri cittadini e meno attrattive verso quelli di altre regioni sono Basilicata, Calabria e Campania che hanno un saldo migratorio negativo molto elevato (rispettivamente, -3‰, -3,3‰, -3,4‰). Le realtà territoriali che maggiormente hanno beneficiato di tali spostamenti sono state la PA di Trento (+2,9‰), l’Emilia-Romagna (+2‰), la Toscana (+1,5‰), il Friuli Venezia Giulia (+1,4‰) e il Lazio (+1,4‰).
 
La fecondità subisce una lieve flessione – Scompare quella sia pur flebile speranza di crescita riscontrata nelle precedenti edizioni del Rapporto: il tasso di fecondità totale (Tft) è passato, infatti, da 1,42 del 2008 a 1,41 del 2009 e nel 2011 è pari a 1,39. Si arresta quindi il sia pur minimo processo di ripresa dei livelli di fecondità che era iniziato a partire dal 1995 quando il Tft raggiunse il suo valore minimo di 1,2 figli per donna.
Il Tft resta inferiore al livello di sostituzione (ossia 2,1 figli per donna, che garantirebbe il ricambio generazionale).
I valori più alti si registrano anche quest’anno nelle PA di Trento e Bolzano e in Valle d’Aosta, dove tale indicatore è prossimo a 1,6 figli per donna.
Seguono, a breve distanza, la Lombardia (1,48), l’Emilia Romagna (1,46), il Veneto (1,44), il Lazio (1,41), il Piemonte (1,4), le Marche (1,39). Le regioni dove si registra un Tft particolarmente basso (ossia inferiore a 1,2 figli per donna in età feconda) sono nel Sud (Sardegna con 1,14, Molise con 1,16 e Basilicata con 1,17). La fecondità delle donne straniere (2,04), è circa il 50% in più di quella delle donne italiane (1,39).
 
 
Italia sempre più vecchia, un peso crescente per la sanità – Anche il Rapporto 2012 mostra la tendenza incessante all’invecchiamento della popolazione italiana, la quota dei giovani sul totale della popolazione è, difatti, contenuta, mentre il peso della popolazione “anziana” (65-74 anni) e “molto anziana” (75 anni e oltre) è consistente.
Nel 2011 la popolazione in età 65-74 anni rappresenta il 10,2% del totale, e quella dai 75 anni in su il 10,1%. Significa che un italiano su dieci ha più di 65. Si confermano Regione più vecchia la Liguria (gli anziani di 65-74 anni sono il 12,7% della popolazione; gli over-75 il 14%), Regione più giovane la Campania (65-74 anni sono l’8,3% della popolazione; over-75 il 7,8%).
 
Sempre di più anziani che vivono soli: come lo scorso anno a livello nazionale oltre un anziano su quattro (28,1% della popolazione con 65 anni ed oltre nel 2010) vive da solo. È in Valle d’Aosta che tale percentuale raggiunge il suo valore massimo (33,6%). Il valore più contenuto si registra nelle Marche (22,9%), seguono Umbria (23,9%), Campania (25,5%), Abruzzo (25,8%) e Veneto (26,1%).
Solo il 15,1% (come nel 2009) degli uomini di 65 anni e oltre vive solo, mentre tale percentuale è decisamente più elevata, pari al 37,6% (38% nel 2009) per le femmine. Sia la differenza di età fra i coniugi, sia la maggiore mortalità maschile rende le donne più a rischio di sperimentare l’evento vedovanza e, quindi, di vivere sole nell’ultima parte della propria vita.
 
Italiani sempre più istruiti, dovrebbero avere gli strumenti conoscitivi per proteggere la propria salute – Quest’anno il Rapporto prende in esame quanto sono istruiti gli italiani: il livello d’istruzione della popolazione è un dato importante perché a titoli di studio più elevati corrispondono in media condizioni socio-economiche migliori e una più frequente adozione di stili di vita salutari. Nel periodo 2004-2011 si è assistito a un aumento relativo della quota di popolazione con titoli di studio più elevati. Questo è dovuto, soprattutto, al progressivo estinguersi delle generazioni più anziane e meno istruite. In particolare, la quota di popolazione che ha conseguito al massimo la licenza elementare passa, nel periodo considerato, dal 29% al 22%. Al contrario, il peso della popolazione che ha conseguito il diploma di scuola media superiore aumenta nel tempo passando dal 26% al 29%. A livello nazionale, il 13,4% della popolazione maschile di 25-64 anni ha conseguito la laurea o un titolo superiore contro il 16,4% della controparte femminile. Ci sono più laureati nelle regioni del Centro (nel Lazio ha conseguito la laurea il 18,2% degli uomini e il 20,4% delle donne) e in alcune regioni del Nord, mentre è inferiore al valore nazionale nelle regioni del Mezzogiorno, escluso l’Abruzzo per entrambi i generi e Molise per le donne. La Regione con meno laureati tra i maschi è la Sardegna (10,6%), quella con meno laureati tra le donne è la Puglia (12,4%). A livello nazionale, il 34% degli uomini ha conseguito un diploma di scuola secondaria superiore, mentre per il collettivo femminile tale percentuale è pari al 33,3%. Infine la metà della popolazione residente con un’età compresa tra 25-64 anni ha conseguito al massimo un diploma di 2-3 anni (qualifica professionale): questa percentuale era pari al 52,6% per gli uomini e al 50,2% per le donne.
Si noti che, secondo uno studio pubblicato con il Rapporto Osservasalute 2010, nella popolazione con livello di istruzione non superiore alla licenza elementare il rischio di soffrire di una o più malattie croniche è, per gli uomini, circa un quarto più elevato di quello di coloro che hanno almeno il diploma superiore, per le donne il 30% in più.
 
 
Migliora la speranza di vita – Al 2011, stando ai dati provvisori, la speranza di vita alla nascita e pari a 84,5 anni per le donne e a 79,4 anni per gli uomini. Procede, quindi, l’andamento più favorevole per gli uomini negli ultimi anni.
Si continua a erodere il vantaggio delle donne rispetto agli uomini: nel 2006 il vantaggio femminile alla nascita era di 5,6 anni, si riduce a 5,1 anni nel 2011 continuando una tendenza che si è instaurata dal 1979, quando il vantaggio di sopravvivenza delle donne raggiunse il suo massimo, 6,8 anni in più rispetto agli uomini.
Per la prima volta negli ultimi anni la PA di Bolzano (80,5 anni), relativamente agli uomini, strappa il titolo di area geografica a maggiore longevità alla Regione Marche (la speranza di vita alla nascita nelle Marche è per i maschi pari a 80,3 anni) che lo deteneva da tempo. Anche per le donne è la PA di Bolzano (85,8 anni) quella con la sopravvivenza media più elevata. È ancora la Campania, invece, la Regione dove la speranza di vita alla nascita è più bassa, tanto per gli uomini (77,7) quanto per le donne (83).
 
Sempre meno morti, soprattutto tra i maschi – Il dato di mortalità registrato nel 2009, rispecchiando quanto descritto per la sopravvivenza, conferma il trend visto negli ultimi anni: un sensibile miglioramento per gli uomini (il tasso standardizzato di mortalità scende di 2 punti percentuali circa passando da 111,85 per 10.000 del 2007 a 109,91 per 10.000 nel 2009) e una situazione pressoché stabile per le donne rispetto a due anni prima (69,44 per 10.000 nel 2007 e 69,31 per 10.000 nel 2009).
Per entrambi i generi e fino ai 74 anni, ma con un’intensità generalmente maggiore per gli uomini rispetto alle donne, nel triennio 2007-2009 è continuato il calo dei rischi di morte per le malattie del sistema circolatorio, dei tumori, delle malattie dell’apparato digerente e del sistema respiratorio. Oltre i 75 anni, l’evoluzione della mortalità nei due generi si differenzia e, per la prima volta, si osserva un lieve aumento dei tassi per le donne: +0,5% contro -0,8% degli uomini.
 
 
Italiani bocciati per stili di vita
 
Sempre più grassi gli italiani; e più crescono, più ingrassano – Continua a crescere, anche se di poco, la percentuale di italiani che ha problemi con la bilancia: nel 2011, oltre un terzo della popolazione adulta (35,8%, mentre era il 35,6% nel 2010) è in sovrappeso (Indice di Massa Corporea – IMC – tra 25 e 30), mentre una persona su dieci (10%) è obesa (IMC>30); complessivamente, il 45,8% dei soggetti di età ≥18 anni è in eccesso ponderale (era il 45,4% nel 2009 e il 45,9 nel 2010). In Italia, nel periodo 2001-2011, è aumentata sia la percentuale di coloro che sono in sovrappeso (33,9% vs 35,8%) sia quella degli obesi (8,5% vs 10%).
Si conferma il gradiente Nord-Sud, ma dal 2001 è boom di obesi a Nord: le regioni meridionali presentano la prevalenza più alta di persone obese (Basilicata 13,1% e Molise 13,5%) e in sovrappeso (Campania 40,1% e Puglia 40,4%) rispetto alle regioni settentrionali (obese: PA Trento 6,4%; sovrappeso: Veneto 31,4%). Confrontando i dati con quelli degli anni precedenti e raggruppando per macro-regioni (Nord-Ovest: Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia; Nord-Est: PA di Bolzano, PA di Trento, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna; Centro: Toscana, Umbria, Marche, Lazio; Sud: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria; Isole: Sicilia, Sardegna) si osserva che dal 2001 nel Nord-Ovest si è registrato il maggior aumento (2,4 punti percentuali) di persone con eccesso ponderale, mentre nel Nord-Est è cresciuta notevolmente la prevalenza di persone obese. Diversamente, nelle Isole la percentuale di persone in sovrappeso e obese è rimasta pressoché stabile negli ultimi anni. A livello nazionale, i dati del 2011 risultano sovrapponibili rispetto a quelli del 2010, ma confermano il trend in aumento degli ultimi 10 anni.
Anche l’età pesa sulla bilancia - La percentuale di popolazione in condizione di eccesso ponderale cresce all’aumentare dell’età: dalla fascia 18-24 anni a quella 65-74 anni il sovrappeso passa dal 15,7% a oltre il 45%, l’obesità dal 2,5% al 15,5%. Nelle persone dai 75 anni in su il valore diminuisce lievemente (sovrappeso 42,3%, obesità 13%).
Uomini peggio delle donne – Come nelle precedenti edizioni gli uomini hanno più problemi delle donne: risulta in sovrappeso il 45,5% (44,3% nel 2010) degli uomini rispetto al 26,8 (27,6% nel 2010) delle donne e obeso il 10,7% (era l’11,1% nel 2010) degli uomini e il 9,4% (9,6% nel 2010) delle donne.
 
 
Lieve flessione degli sportivi, il Paese è sempre pigro, soprattutto le donne – Rispetto alla precedente edizione del Rapporto, diminuiscono anche se di poco gli sportivi: nel 2010 il 22,8% della popolazione italiana con età ≥3 anni praticava con continuità, nel tempo libero, uno o più sport (nel 2009 era il 21,5%, nel 2008 era il 21,6%, nel 2007 il 20,6%). Nel 2011 si scende al 21,9% della popolazione.
I sedentari sono pari al 39,8%. L’abitudine all’attività fisica non è uguale in tutte le regioni, ma c’è un gradiente Nord-Sud con livelli più elevati e continui di svolgimento di una qualsiasi attività fisica nella PA di Bolzano (37,9%) e in Valle d’Aosta (29,3%) e livelli più bassi in Campania (13,1%) e Puglia (13,6%).
La sedentarietà aumenta man mano che si scende da Nord verso Sud, in particolare in Sicilia (57%) e in Puglia (57,2%). La pratica sportiva è molto più frequente fra gli uomini: il 26,0% pratica sport con continuità e il 12,6% lo pratica saltuariamente, mentre fra le donne la quota è, rispettivamente, del 18% e del 7,9%. La quota di sedentari è maggiore tra le donne (44,4% vs 35%).
 
 
Gli italiani continuano a consumare poca frutta e verdura – Complessivamente, le persone di 3 anni e oltre che consumano quotidianamente Verdura, Ortaggi e Frutta (VOF) costituiscono una percentuale abbastanza stabile con un minimo di 83,7% nel 2009 e un massimo di 85,3% nel 2006, per attestarsi all’85% nel 2011 come valore nazionale. Osservando, tra di loro, la percentuale di persone che mangia almeno 5 e più porzioni al giorno di VOF, si è registrato un massimo di 5,7% nel 2008 al termine di un periodo di crescita dell’indicatore che partiva da un 5,3% nel 2005. Nel 2009, e sceso al 4,8% per poi risalire nel 2010 (5,5%) e, infine, attestarsi al 4,9% nel 2011. L’evoluzione osservata nel tempo vede una crescita in alcune delle regioni che inizialmente presentavano un livello inferiore, in particolare l’Abruzzo (che passa da una percentuale di 4,3% a 6,6%), la Basilicata e la Sardegna, mentre si registra un andamento opposto per le regioni che partivano da un livello più elevato, come Piemonte, Veneto, Toscana e Lazio.
 
Alcolici, meno consumatori ma più diffusi i comportamenti a rischio – Diminuiscono i consumatori ma aumentano i comportamenti a rischio, come il binge drinking (ovvero l'assunzione di 5 o più bevande alcoliche in un intervallo di tempo più o meno breve). La prevalenza dei non consumatori, che corrispondono agli astemi e ai sobri degli ultimi 12 mesi, è pari nel 2010, al 32,7%, dato in aumento rispetto agli ultimi anni. L’aumento rispetto all’anno 2008 è statisticamente significativo sia a livello nazionale (+3,3 punti percentuali) sia in molte realtà locali grazie all’aumento degli astinenti degli ultimi 12 mesi (+2,8 punti percentuali); gli aumenti più consistenti di non consumatori si registrano in alcune regioni del Centro, quali Umbria (+7,7 punti percentuali), Marche (+6,5 punti percentuali) e Emilia-Romagna (+5,7 punti percentuali).
Cresce il fenomeno del binge drinking tra i giovani: il dato passa dal 9,5% del 2009 al 10,5% del 2010.
 
 
Si fuma un po’ meno – Diminuiscono, anche se di poco, i fumatori, infatti, mentre nel 2010 fumava il 22,8% degli over-14 nel 2011 è il 22,3%. Non emergono grandi differenze rispetto al 2010, ma si evidenzia una maggior prevalenza rispetto al dato nazionale nel Lazio (27,2%) e in Abruzzo (24%), entrambe in aumento rispetto al 2010 (26,7% e 21,8%, rispettivamente). Una netta diminuzione, rispetto all’anno precedente, si osserva, invece, in Valle d’Aosta (19,8% vs 16,3%) e in Campania (26,1% vs 23,1%).
Notevoli sono le differenze di genere: gli uomini fumatori sono il 28,4%, mentre le donne il 16,6%. Il vizio del fumo è più diffuso nei giovani adulti, in particolare, tra i 25-34 anni, fascia di età in cui si concentra circa un terzo del campione (30,6%).
 
Si riduce la mortalità per malattie cardiovascolari, ma gli uomini muoiono il doppio delle donne - Un dato rilevante per la salute degli italiani e che negli ultimi 40 anni la mortalità totale si è più che dimezzata (il tasso standardizzato di mortalità totale si è ridotto del 53,0% tra il 1970 e il 2008) e la riduzione della mortalità per le malattie cardiovascolari è stato il fattore che più ha influito sul trend in discesa della mortalità totale (nello stesso periodo, la mortalità per malattie cardiovascolari si è ridotta del 63%).
La mortalità per le malattie ischemiche del cuore continua a colpire quasi il doppio degli uomini rispetto alle donne; in particolare, nel 2009, si sono registrati 14,07 decessi (per 10.000) fra gli uomini e 7,79 decessi (per 10.000) fra le donne e è da sottolineare che entrambi i tassi di mortalità sono in diminuzione rispetto al 2008. A livello regionale, il primato negativo spetta alla Campania sia per gli uomini (17,13 per 10.000) sia per le donne (10,43 per 10.000). La Sardegna per gli uomini e la Valle d’Aosta per le donne sono le regioni più virtuose con tassi di mortalità, rispettivamente, di 11,81 decessi e 5,34 decessi (per 10.000). Il dato positivo è che si registra per la mortalità per malattie ischemiche del cuore un trend in discesa che continua dal 2003 in entrambi i generi, in tutte le classi di età e in tutte le regioni.
 
Prosegue l’aumento dei consumi di antidepressivi – Anche quest’anno prosegue il trend di aumento del consumo di farmaci antidepressivi, come già visto nel precedente Rapporto. Il volume prescrittivo dei farmaci antidepressivi mostra un continuo aumento negli ultimi 10 anni: nel 2011 il consumo (in DDD/1000 ab die) di farmaci antidepressivi è di 36,1, contro un consumo di 8,18 nel 2000. Il trend dell’utilizzo dei farmaci antidepressivi difficilmente vedrà un’inversione di tendenza. Questo potrebbe essere imputato a due fattori principali. Il primo è la facilità di utilizzo della tipologia farmaceutica. “Infatti – spiega la professoressa Roberta Siliquini, Ordinario di Igiene all’Università di Torino - sempre più spesso le forme di depressione lievi vengono trattate dai Medici di Medicina Generale senza il supporto specialistico, motivo per cui senza un adeguato controllo il volume di farmaci prescrivibili, tramite il SSN, potrebbe essere destinato ad aumentare, con relativo aumento della spesa. Il secondo, e forse di maggior importanza, dipende dalle ultime stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dalle quali emerge che, nel 2020, la depressione sarà la seconda causa di morte nei Paesi occidentali, con crescente e continuo utilizzo dei farmaci correlati”.
Alla luce dei risultati mostrati, potrebbe rendersi necessaria una riflessione che miri a trovare i giusti supporti nelle strutture territoriali per la diagnosi e la cura delle patologie depressive in modo da migliorare, laddove possibile, l’appropriatezza prescrittiva.
 
Continua il trend in aumento per i suicidi, sono gli uomini a togliersi più spesso la vita – Nel biennio 2008-2009, il tasso medio annuo di mortalità per suicidio è pari a 7,23 per 100.000 residenti dai 15 anni in su. Nel 77% dei casi il suicida è un uomo. Il tasso di mortalità è pari a 12,05 (per 100.000) per gli uomini e a 3,12 per le donne.
Dopo il minimo storico raggiunto nel 2006 (quando sono stati registrati 3.607 suicidi) si evidenzia una nuova tendenza all’aumento negli ultimi anni di osservazione (con 3.870 suicidi nel 2009). L’incremento registrato osservato negli anni più recenti si deve pressoché esclusivamente a un aumento dei suicidi tra gli uomini per i quali il tasso è passato da 11,70 (per 100.000) nel 2006 e nel 2007 a 11,90 (per 100.000) nel 2008 e 12,20 (per 100.000) nel 2009. L’aumento della mortalità per suicidio riguarda soprattutto gli uomini tra 25 e 69 anni.
 
L’aumento costante del tasso di suicidi negli ultimi anni può essere un segno, oltre che di patologia psichiatrica, del crescente disagio sociale e va monitorato con attenzione anche al fine di prevedere un rafforzamento delle attività preventive e della presa in carico sanitaria e sociale di soggetti a rischio.
 
 
Una fotografia del servizio sanitario nazionale
 
Tagli continui e a pioggia mettono in pericolo il SSN – Il Rapporto sembra confermare una certa efficacia delle iniziative di contenimento della spesa destinata alla salute: anche il 2011, come già il 2010, è stato caratterizzato da una crescita molto contenuta della spesa sanitaria pubblica (+0,1% a parità di criteri di contabilizzazione) che mantiene l’Italia al di sotto della media dell’Unione Europea sia in termini pro capite, sia in rapporto al PIL; i disavanzi permangono, ma sono ormai ridotti a livelli molto circoscritti, almeno in termini di valori medi nazionali (nel 2011, circa 29€ pro capite, pari all’1,6% del finanziamento complessivo). Tutto ciò riflette e sintetizza un profondo mutamento negli atteggiamenti delle aziende rispetto ai vincoli economico-finanziari: se in passato i vincoli venivano spesso giudicati irrealistici e non incidevano sugli effettivi comportamenti aziendali, alimentando dei circoli viziosi di generazione e copertura dei disavanzi, oggi gli stessi vincoli sono giudicati pienamente credibili e condizionano fortemente le scelte gestionali. Sotto il profilo degli equilibri economici di breve periodo, l’unico elemento di forte preoccupazione è la differenziazione interregionale, con risultati economici consolidati positivi in tutte le regioni del Centro-Nord (tranne Liguria) e negativi in tutte le regioni del Centro-Sud (tranne Abruzzo) e con 2 regioni (Lazio e Campania) che, anche nel 2011, hanno generato da sole il 63% dell’intero disavanzo nazionale.
Risulta da ciò chiaro che gli ulteriori sacrifici richiesti alla Sanità Pubblica dalla Spending Review non si possono giustificare con una presunta dispendiosità del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), bensì da un lato, con l’elevato livello del debito pubblico e della correlata spesa per interessi (quest’ultima è pari a circa i 2/3 dell’intero fabbisogno sanitario nazionale), dall’altro con l’incapacità del sistema economico di crescere adeguatamente (tanto che l’aumento della spesa sanitaria pubblica, seppur spesso molto contenuto, è stato negli ultimi 20 anni quasi sempre superiore a quello del PIL).
Il rischio evidente è che questi ulteriori sacrifici aggravino il divario tra le risorse disponibili e quelle necessarie per rispondere in modo adeguato alle attese, intaccando ulteriormente una copertura pubblica già incompleta. Particolarmente critiche sono le prospettive per l’equità intergenerazionale, per effetto sia del sostanziale blocco degli investimenti (cui contribuisce, in verità, anche la frequente incapacità di spendere bene i limitati fondi disponibili), sia dell’impatto che le iniziative di risparmio e razionalizzazione potrebbero avere sullo stato di salute dei cittadini. In linea di principio, naturalmente, tali iniziative dovrebbero identificare e incidere su situazioni di inefficienza e inappropriatezza, quindi salvaguardare gli attuali livelli di servizio. Laddove il contenimento dei costi sia ottenuto riducendo i servizi offerti, invece, si potrebbe generare un impatto negativo di medio periodo sulle condizioni di salute della popolazione, con gravi conseguenze negative anche sul piano economico. Naturalmente, il rischio è più accentuato nelle regioni assoggettate a Piano di Rientro, dove le iniziative di contenimento dei costi sono state più intense.
In questa prospettiva e nell’attuale congiuntura economica soluzioni come recuperare efficienza; adottare esplicite scelte di razionamento e ricercare risorse aggiuntive potrebbero non bastare, potrebbe, quindi, diventare necessario chiarire in modo più esplicito i livelli di assistenza che il SSN potrà continuare effettivamente a garantire su base universalistica.
In caso contrario, il rischio è che si estendano forme di razionamento implicite e non governate, prevalentemente attraverso compartecipazioni alla spesa e lunghi tempi di attesa. Nel contempo, potrebbe essere opportuno attivare risorse aggiuntive, per esempio tramite lo sviluppo dell’attività a pagamento e dei fondi integrativi (salvaguardando, pero, il rispetto dei principi ispiratori del SSN), nonché ricercare un’integrazione più forte con l’assistenza socio-sanitaria, in termini di governance, di canali di finanziamento, di erogatori e di servizi erogati.
 
Spesa sanitaria pubblica inferiore a quella di alcuni Paesi OCSE – Si conferma anche che il valore della spesa sanitaria pubblica è allineato alla media dei Paesi OCSE, anche se inferiore a quelli di altri Paesi come Regno Unito, Germania e Francia di circa 2 punti percentuali e addirittura degli USA che hanno un sistema privato. Si conferma pure il trend in crescita a partire dal 2003 passando dal 6,09% al 7,22% del 2009, con un tasso medio composto annuo del 2,87%. L’incremento è particolarmente significativo nel 2009, anno in cui, in valore assoluto, la spesa sanitaria pubblica aumenta, mentre il PIL subisce una riduzione. A livello regionale l’indicatore mostra delle significative differenze nel 2009, variando da un massimo di 11,02% del Molise a un minimo di 5,42% della Lombardia, un divario che supera i 5 punti percentuali.
 
Spesa sanitaria pro capite in aumento - Il Rapporto mostra che la spesa sanitaria pro capite è cresciuta dell’1,09% fra 2010 e 2011 passando da 1.831€ a 1.851€. La spesa è aumentata del 12,59% rispetto al 2005. Occorre osservare, pero, come l’incremento tra il 2011 e il 2010 include l’effetto dovuto alla contabilizzazione a partire dal 2011 dei costi relativi agli ammortamenti degli investimenti. Anche quest’anno le regioni del Nord mettono a disposizione un ammontare di risorse superiore rispetto alle regioni meridionali.
 
Disavanzi in diminuzione - Nel 2011 il disavanzo sanitario nazionale ammontava a circa 1,779 miliardi di euro, in diminuzione rispetto al 2010 (2,206 miliardi di euro), a conferma del trend di sistematica riduzione avviato dopo il picco (5,790 miliardi di euro) raggiunto nel 2004. Anche a livello pro capite il disavanzo 2011 (29€) è il più basso dell’intero arco temporale considerato (2002-2011).
 
La “pagella” al SSN – Quest’anno il Rapporto presenta anche un’analisi delle performance del nostro sistema sanitario sulla base di alcuni parametri quali efficienza (offerta di servizi con la spesa minima possibile), efficacia (esito delle prestazioni erogate), appropriatezza, che valuta gli atti medici in relazione ai costi, alle risorse disponibili e ai risultati auspicabili, qualità per il cittadino, intesa come accessibilità e soddisfazione, che il sistema sanitario assicura alla popolazione.
La valutazione della performance dei sistemi sanitari è divenuta una priorità ineludibile, visto il crescente impegno di risorse economiche di cui essi necessitano e le forti implicazioni sociali delle scelte di politica sanitaria attuate dai Governi.
Nel corso degli ultimi 20 anni, infatti, si è assistito in tutti i Paesi sviluppati a una crescita continua della spesa destinata alla sanità che ha messo in discussione la sostenibilità economica dei sistemi sanitari, in particolare quelli a finanziamento pubblico. La dinamica della spesa osservata in questo settore è da attribuire sia all’incremento della domanda di assistenza e cure sanitarie (dovuto all’aumento degli anziani e di fasce bisognose di cure), sia all’aumento dei costi legati all’innovazione scientifica e tecnologica.
 
I risultati della valutazione della performance rispetto alle singole dimensioni considerate mettono in evidenza il consueto divario tra Nord e Mezzogiorno, seppure caratterizzato da alcune eccezioni interessanti. Ancora più interessante è spingere l’analisi sul confronto tra alcune dimensioni della performance con cui si possono mettere in luce dei trade-off che possono fornire spunti di riflessione e indicazioni su come procedere. Il trade-off è il rapporto tra due dimensioni usate per valutare la performance, per esempio il rapporto tra efficienza e efficacia.
In generale, ad esempio, ci si preoccupa quando al crescere dell’efficienza di un SSR diminuisce l’efficacia delle cure perché potrebbe significare che il mirare troppo al risparmio si traduce, di fatto, in un danno per la salute dei cittadini. Le spinte verso l’efficienza della spesa spesso hanno conseguenze poco desiderabili sugli outcome, sia in termini di esiti di salute che di appropriatezza, accessibilità e soddisfazione.
Dal confronto tra i livelli di efficienza e di efficacia registrati nelle regioni emerge che la PA di Bolzano e l’Abruzzo, a fronte di bilanci di spesa positivi, fanno registrare livelli bassi e medio-bassi di efficacia. Si tratta, quindi, di casi in cui una buona gestione della spesa non concorda con altrettanti buoni risultati in termini di salute. Per contro, le regioni che lamentano conti in rosso, come la Liguria e la Basilicata, possono vantare livelli medio-alti di efficacia del sistema sanitario. La Valle d’Aosta si dimostra un’eccellenza in quanto riesce a coniugare conti in ordine e alta efficacia; all’estremo opposto troviamo Calabria e Sardegna, negative sia in termini di efficienza che di efficacia.
Sul fronte del rapporto tra efficienza e grado di soddisfazione e di facilità di accesso alle cure dei cittadini emerge invece come Regione meno virtuosa l’Umbria, in quanto pur risultando capace di controllare la spesa, non riesce però a fornire ai propri residenti un alto livello di accessibilità e soddisfazione; per contro, Marche, Liguria, Molise e Sardegna evidenziano scarsa capacità nel tenere i conti in ordine, ma possono vantare livelli di accessibilità e soddisfazione medio-alti.
 
Mortalità evitabile - Il concetto di mortalità evitabile per cause riconducibili ai servizi sanitari o Amenable Mortality (AM) è potenziale strumento per la valutazione della qualità e dell’efficacia dei sistemi sanitari e per monitorarne i cambiamenti nel tempo. La “mortalità riconducibile alle cure sanitarie” è definita come “decessi considerati prematuri, che non si verificherebbero in condizioni di cure efficaci e tempestive” o come “morti attribuibili” a condizioni per cui esistono efficaci interventi diagnostico-terapeutici e di prevenzione secondaria, che potrebbero prevenire le “morti premature”. Nel periodo considerato nel Rapporto, tra 2006 e 2009, si è assistito a una lieve riduzione del tasso di mortalità riconducibile ai servizi sanitari: si è passati, difatti, dal 63,86 (per 100.000) del 2006 al 61,69 (per 100.000) del 2009. Queste cause di morte riguardano soprattutto gli uomini. Le regioni che presentano la peggiore performance in tutti gli anni considerati sono Calabria, Campania e Sicilia.
Ormai il divario tra i cittadini delle regioni più virtuose e quelle in difficoltà è impressionante: quasi 4 anni separano gli uni dagli altri ed è come se negli ultimi dieci anni, alcuni fossero tornati al secondo dopoguerra in termini di guadagno di aspettativa di vita.

29 aprile 2013
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