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Costi standard. “Top-down” per risparmiare, “bottom-up” per risanare

di Fabrizio Gianfrate

L’approccio top-down non serve a recuperare efficienza tecnica e allocativa dove necessario: ridurre i fondi non insegna all’incompetente a gestire né fa diventare onesto chi non lo è. Si rischia, inoltre, di accrescere la disparità tra regioni. Quello “bottom-up” costituisce il fabbisogno finanziario di ogni regione individuando e valorizzando ogni PDTA per “prodotto” finito con le regioni benchmark

13 NOV - L’art. 35 della Legge di Stabilità taglia alle regioni 3.452 milioni di euro l’anno, che si sommano ai 750 milioni del Decreto Irpef di aprile, per un totale di circa 4 miliardi, comprese le risorse “destinate al finanziamento corrente del SSN” cita la legge. L’art. 39 del Patto della Salute conferma invece, contraddittoriamente, il livello di finanziamento del FSN. Tutto ruota, proposta “Chiamparino” inclusa, sui costi standard nella filosofia dal D.Lgs. 56/2000, della legge delega 42/2009, e soprattutto del D.Lgs 68/2011, il cosiddetto decreto “Calderoli”.

Benché i costi standard fossero nati e cresciuti per rivedere la perequazione, la ripartizione del Fsn tra regioni “ricche” e “meno ricche”, oggi prevale su quell’obiettivo redistributivo di allora quello restrittivo di “spending review” attuale: spendere meno (ce lo chiede l’Europa) anziché ripartire diversamente tra regioni (ce lo chiedeva la Lega).

L’approccio top-down previsto ridefinisce di fatto le quote capitarie: in sintsesi, la spesa pro capite standard delle regioni selezionate tra quelle in pareggio di bilancio, benchmark, diventa, pesandola in ogni altra regione, la quota capitaria delle altre. Un sistema accettabile benché con qualche “bias” di partenza (assenza di valutazione qualitativa nel benchmark, spesa standard su un benchmark già pesato e non su indici medi nazionali, epidemiologica del benchmark solo come “proxy” statistico di quella nazionale). L’approccio top-down tuttavia non serve a recuperare efficienza tecnica e allocativa dove serve: ridurre i fondi non insegna all’incompetente a gestire né fa diventare onesto chi non lo è.

Inoltre si rischia di accrescere la disparità tra le regioni, con il potenziale pericolo di mettere poi mano ai Lea non solo nel valore ma anche nel numero, salvaguardando sì l’uniformità dell’assistenza, ma al ribasso. Con le regioni più “ricche” che si possono permettere autonomamente i Lea non più coperti (una insospettabile quanto spiazzante eterogenesi dei fini federalista).

Il tanto necessario recupero di efficienza richiede notoriamente invece un approccio ai costi standard del tipo “bottom-up”, assai più complesso da applicare e praticare (vedi su QS Dore, Quattrone, Spandonaro e altrove, Mapelli. Da parte mia ne approfondisco il tema in un mio recente volume).
Stendendo un velo pietoso sul grottesco equivoco della mitica siringa, in economia aziendale il costo standard è il costo di produzione di un prodotto-servizio finito (ricovero, intervento ambulatoriale, ecc.) in condizioni di efficienza ottimale o normale (come “proxy” ricorda il DRG). Individuando e valorizzando ogni PDTA per “prodotto” finito con le regioni benchmark, sulla domanda di PDTA di ogni regione se ne costruisce il rispettivo fabbisogno finanziario, nel canonico e dottrinale processo “bottom up”.

Va da sé che un tale processo di organizzazione e produzione va affiancato e supportato da monitoraggio e valutazione in itinere e finale (score card) anche della qualità dell’”output” realizzato così da avere l’”outcome” migliore come beneficio di salute. Processo molto complicato il “bottom-up” ma non impossibile. Uno sforzo che, a mio avviso, vale la pena compiere per i benefici che ne deriverebbero e per evitare i rischi e le controindicazioni dell’approccio “top-down”.

Fabrizio Gianfrate 

13 novembre 2014
© Riproduzione riservata


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