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Il Ssn e la complessità di cure e pazienti: una lettura sistemica

di Fulvio Forino

Anche in sanità, la vitalità d’ogni sistema, come quella d’ogni vivente, dipende dalla sua capacità/possibilità di procurarsi dall’ambiente le risorse necessarie al suo funzionamento e da quella di mantenere un grado d’integrazione tra i suoi componenti. 

22 DIC - Questo documento è la rielaborazione di quanto emerso in una serie di laboratori promossi dall’Associazione Dedalo 97. Nel corso degli stessi, i partecipanti hanno evidenziato la loro difficoltà a “lavorare insieme”, una “solitudine professionale” che rispecchia la difficoltà delle aziende della sanità a “fare sistema”. Il documento propone una lettura sistemica di questa difficoltà e di segnali rivelatori di profondi cambiamenti in atto nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN), che si vuole rimanga uno dei migliori al mondo.

Le aziende sanitarie sono sistemi
Ogni sistema emerge da una rete di relazioni tra più componenti. L’idea centrale dell’approccio sistemico è che la “rete” sia la configurazione comune a tutte le organizzazioni del SSN; siano esse un’equipe, un’azienda o un servizio sanitario regionale. Anche in sanità, la vitalità d’ogni sistema, come quella d’ogni vivente, dipende dalla sua capacità/possibilità di procurarsi dall’ambiente le risorse necessarie al suo funzionamento e da quella di mantenere un grado d’integrazione tra i suoi componenti. L’integrazione è frutto della varietà e della specializzazione di più soggetti che, grazie alla complementarietà delle loro funzioni, danno luogo ad attività che nessuno di essi potrebbe svolgere da solo. In un sistema, però, complementarietà e integrazione generano quell’interdipendenza che, se non gestita, ostacola il funzionamento di alcune sue parti e/o del sistema stesso. Tutto ciò è particolarmente evidente nelle aziende della sanità che si trovano a fronteggiare una crescente complessità di patologie e pazienti che richiedono interventi integrati e coordinati di più servizi e/o professioni.

Solitudine professionale
In medicina è sempre più difficile “vincere da soli” e molte lungaggini, ridondanze e disfunzioni sono riconducibili alla frantumazione organizzativa dell’assistenza e dei pazienti in gran parte dovuta ad assetti organizzativi che ostacolano il coordinamento e la continuità dell’assistenza. Questa difficoltà a fare sistema è avvertita da chi opera sul campo e particolarmente da quanti sono coinvolti in percorsi assistenziali, equipe multidisciplinari, case della salute, ospedali basati sull’intensità delle cure, in reti assistenziali territoriali. È questa difficoltà che oggi richiede una strategia dell’integrazione che porti le aziende della sanità ad assumere una configurazione sistemica.

Cronicità, comorbilità e patologie complesse
Nel nostro paese un cittadino su cinque è ultrasessantacinquenne; i “casi” di diabete di tipo I sarebbero 250.000; quelli di diabete di tipo II, 3.000.000; quelli di bronchite cronica ostruttiva 1.500.000. Le persone sopravvissute a un infarto cardiaco sarebbero 2.000.000 e i sopravvissuti a un episodio d’ictus cerebrale 900.000. Le persone d’età superiore ai 14 anni, affette da una malattia principale, psichica, osteomuscolare, cardiocircolatoria, respiratoria, digestiva, presentano, in media, associate ad essa altre 4-5 malattie. Un esemplare studio, condotto nel 2005 negli Stati Uniti sugli utenti di Medicare, tutti ultra sessantacinquenni, rilevava che il 50% di essi assumeva più di 5 diversi farmaci al giorno; il 48% aveva almeno tre delle malattie più frequenti e il 21% ne presentava almeno 5. Lo studio evidenziava la difficoltà d’utilizzare le linee guida più accreditate per gestire un’ipotetica paziente 79enne che, affetta da osteoporosi, artrosi, diabete di tipo II, BPCO e ipertensione, avrebbe dovuto assumere 12 farmaci in 19 diverse somministrazioni e attenersi a 18 attenzioni alimentari e a 7 attenzioni comportamentali.

Comorbilità e patologie complesse
Il concetto di comorbilità presuppone la possibilità d’individuare una malattia principale e di separarla da altre compresenti per gestirle separatamente e indipendentemente l’una dalle altre. Il concetto di patologia complessa supera e ingloba quello di comorbilità. Parte dal presupposto che quando in un paziente coesistono più malattie, tanto più se sistemiche, esse s’intrecciano facendo emergere una patologia complessa che è più della loro somma, che è una nuova entità, che è un “caso unico”, che risponde a logiche sue, che non s’incontra nei testi universitari e che non è possibile gestire sommando più consulenze, più diagnosi, più linee guida, più protocolli, più prestazioni professionali, più farmaci, più prescrizioni terapeutiche, alimentari e comportamentali.

Pazienti complessi
Studi dei medici di famiglia, ospedali, servizi territoriali, strutture intermedie, sono affollati da pazienti cronici, polipatologici, fragili, da “malati per sempre”.
Molti di essi sono pazienti complessi in quanto portatori d’una patologia complessa. Sono i pazienti reali che s’incontrano ormai nell’esercizio quotidiano d’ogni professione sanitaria. Sono pazienti esclusi dai trial clinici in quanto polipatologici, EBM orfani che rivelano una contraddizione, difficile da risolvere, tra la loro gestione e il ricorso a linee guida, protocolli e percorsi assistenziali. Sono pazienti complessi che possono essere, ma non necessariamente sono, pazienti anziani, fragili, disabili, critici o ad alto assorbimento di risorse, o, genericamente, “difficili” o “complicati”. La loro gestione richiede un “team di cura”, anche ad assetto variabile e/o di durata limitata nel tempo. Richiede che più specialisti e/o professionisti i quali, sulla base di stima e fiducia e dei massimi livelli possibili di accordo e certezza, interagiscano sistematicamente tra loro per individuare una strategia e le decisioni, le azioni e le figure professionali da mettere in campo includendo nelle cure, ogni volta che sia necessario e possibile, il paziente stesso e i suoi familiari e caregiver.

Le cure e la complessità della persona
Un paziente complesso pone sempre i professionisti della sanità di fronte alla gestione d’una persona che presenta più patologie non solo intrecciate tra loro, ma anche con situazioni e problemi psicologici, affettivi, sociali, familiari, culturali a loro volta intrecciati tra loro così che la singola patologia, o il singolo problema, diviene un’astrazione che non è possibile estrarre dagli altri. Così, la gestione di un paziente complesso richiede non solo competenze bio mediche, ma anche quelle competenze sociali, psicologiche e umanistiche che, sottese dal paradigma bio-psico-sociale, permettono di coinvolgere un paziente nella gestione della sua situazione, nell’adottare nuovi stili di vita, nell’aderire a terapie impegnative. In questo senso va letta la scelta della Medicina di Famiglia che ha fatto proprio il paradigma sistemico biopsicosociale e che ha sottratto le proprie scuole di formazione all’insegnamento universitario.

Segnali deboli
I segnali deboli sono indizi di futuro spesso poco percepibili perché sovrastati da rumori di fondo. Spesso sottovalutati perché colti isolatamente, se ascoltati con attenzione e collegati tra loro fanno intravedere possibili scenari futuri. Oggi nel SSN vi sono dei segnali deboli riconducibili al diffondersi di case della salute, ospedali basati sull’intensità delle cura, unità operative ospedaliere “ibride”, equipe e reti territoriali, aggregazioni di medici di famiglia, reti interdisciplinari ospedaliere, ambulatori e unità di degenza a conduzione infermieristica. Tutte queste forme organizzative sono altrettanti tentativi d’organizzare la crescente interdipendenza in funzione dell’integrazione e del coordinamento di più professionisti, professionalità e servizi. Nel loro insieme, depongono per una crescente consapevolezza che in sanità appropriatezza, efficienza, qualità dipendono sempre più dal coordinamento di più operatori e/o servizi che non dalle performance dei singoli. Suggeriscono di riflettere su quanto sia difficile per le aziende della sanità, ingessate da un insieme di norme che le articolano in dipartimenti, ospedali, servizi del territorio e medicina di famiglia, realizzare forme sistemiche d’organizzazione innovative capaci d’assicurare la continuità dell’assistenza e la ricomposizione dei pazienti e delle cure evitando loro di peregrinare da una struttura o da un servizio all’altro. Oggi a venti anni dal loro esordio, le aziende della sanità mentre faticano ad assumere una configurazione sistemica hanno complicato la loro organizzazione. In esse convivono decine di specialisti e ben ventuno professioni, tutte articolate per competenze, ruoli e funzioni. Alcune Aziende stanno portando avanti esperienze per ricomporre la separatezza tra settori e unità specializzati, scollegati e dai confini poco permeabili, che operano in funzione della patologia e dell’organizzazione erogatrice e non del paziente e/o che trattano patologie e pazienti diversi, o uno stesso paziente in fasi diverse di una stessa malattia. Infatti, l’ospedale, lo studio del medico di famiglia, il domicilio del paziente, le strutture intermedie, i servizi territoriali sono contesti tanto diversi d’aver generato concezioni della salute e della malattia, approcci al paziente, metodologie e prassi profondamente differenti così che oggi è difficile ricondurre a una logica di sistema l’insieme delle cure e ad evitare lungaggini, discontinuità, ridondanze e spreco di risorse.

Quando la soluzione è un problema
A questa difficoltà si è risposto con la stessa logica che l’ha generata. Un’ingegneria organizzativa e un controllo di gestione sempre più estranianti hanno complicato il funzionamento dei servizi e dilatato l’invadenza della burocrazia. Purtroppo, spesso il management delle aziende della sanità, concentrato sull’efficienza e sulle performance dei singoli servizi, non ha posto la dovuta attenzione all’interdipendenza che ne condiziona l’attività e in molte realtà, sostiene una concezione rigida, a canne d’organo, delle aziende della sanità che ostacola anche la sola proposizione di dar vita a equipe, reti e gruppi operativi interdisciplinari e interprofessionali.

Ricomporre cura e prevenzione
Scopo del SSN è la difesa della salute e non solo protezione economica dal rischio di malattia.
A tanti anni di distanza dalla riforma sanitaria del 1978, è bene riaffermare che la sostenibilità del SSN dipende tanto dalla sua efficienza quanto dalla sua capacità di contribuire a generare salute.
Vent’anni d’aziendalizzazione hanno approfondito la dissociazione tra il sistema delle cure e la prevenzione che, divenuta anch’essa un settore specialistico di competenza di esperti, per molti, non è tra le priorità del SSN. Il risultato è che la grande maggioranza dei medici e dei professionisti non ritiene di doversi occupare di prevenzione e di promozione della salute mentre, al contrario, andrebbero decentrate al massimo e portate a livello del rapporto individuale medico/paziente, equipe/paziente. È a questo livello, infatti, che è più incisivo proporre ai pazienti comportamenti utili alla gestione della loro condizione di salute/malattia e stili di vita e comportamenti utili a sottrarsi ad accertamenti e cure spesso, inutili se non dannosi. Senza mettere in discussione risultati e conquiste della medicina curativa, le aziende della sanità dovrebbero essere capaci non solo di produrre prestazioni, ma anche di stare “dalla parte della salute”, di suscitare quelle energie che, al di là d’astratte idealizzazioni, sono patrimonio degli individui e delle loro comunità e rappresentanze, d’associazioni, del volontariato, di scuole, istanze culturali, imprese, … che al livello locale possono contribuire a costruire socialmente la salute di ciascuno e di tutti come “bene comune”.

Appropriatezza, metro e valore
L’appropriatezza dipende largamente dalla responsabilizzazione di professionisti e utenti. Se il risparmio, infatti, è razionamento e taglio delle risorse, l’appropriatezza è la razionalizzazione del loro impiego, è una combinazione equilibrata d’efficienza, efficacia e corretta indicazione. Significa utilizzare in modo efficiente, le risorse disponibili per assicurare prestazioni accettabili per l’utenza, efficaci, supportate da una corretta indicazioni e capaci di rispondere alla domanda di salute espressa e inespressa, individuale, familiare e sociale.
Secondo dati del 2012, sarebbe inappropriato il 40% delle medicazioni avanzate, il 25% delle indagini d’imaging, il 15% delle giornate di ricovero e, complessivamente, il 30% della spesa sanitaria sarebbe impiegata per prestazioni inappropriate, se non nocive.
Sono dati impressionanti secondo i quali circa trenta miliardi del finanziamento del SSN sarebbero spesi non efficacemente da aziende che, secondo una logica troppo mutualistica, tendono a incrementare un’offerta di prestazioni che soddisfi i clienti con l’effetto paradossale di dilatarne la domanda in sinergia con interessi di terzi e con logiche parassitarie. In una sanità intossicata da medicina difensiva, interessi economici, efficientismo … si dimentica che in medicina, spesso, “fare meno è fare meglio” e che senza efficacia e corretta indicazione l’efficienza provoca sprechi e danni ai pazienti.
L’appropriatezza va proposta ai professionisti sanitari come metro di valutazione e come valore. L’etica dell’appropriatezza, infatti, si fonda su libertà professionale, rapporto fiduciario e beneficiario per il paziente, sull’operare secondo scienza e coscienza, sull’agire con perizia, prudenza e diligenza, che sono valori deontologici condivisi da tutte le professioni sanitarie e coerenti con una riflessione, che dovrebbe svolgersi a tutto campo e a tutti i livelli del SSN, su come si spende e su come si lavora, e non solo su quanto si spende e su quanto si lavora.

Lavorare insieme
La specializzazione comporta il vantaggio della diversificazione della conoscenza, delle funzioni e dei compiti, ma genera il paradosso della “fragilità” del sapere. Infatti, più la conoscenza è specializzata, meno siamo in grado di “curare il tutto”, di “prenderci cura della persona”.
Di fronte alle persone e a quadri patologici complessi, lo specialista deve valutare e integrare un groviglio inestricabile d’osservazioni, dati, informazioni e variabili, non solo biomedici, ma anche sociali, economici, affettivi e psicologici così che si trova a dipendere da altri specialisti e da altri professionisti per problematiche assistenziali, psicologiche, sociali o culturali. Di fronte a pazienti cronici e complessi non si tratta solo di dar seguito a individuali e puntuali atti di cura, consequenziali uno all’altro, ma, soprattutto, d’avere una strategia, d’adattare indagini e cure, d’inventare soluzioni.
Tutto ciò richiede la capacità di comunicare empaticamente con il paziente e tra operatori e di lavorare insieme in equipe e in reti al cui interno il ruolo integratore del case manager sarà sempre più importante. Lavorare in insieme non significa affiancare più saperi ma generare una conoscenza e una capacità di decidere e d’agire che nessuna individualità possiede. Da molti anni, è dimostrato che in ospedale come nei servizi territoriali, il lavoro in equipe produce prestazioni più efficaci e una significativa riduzione dei costi.
Ciò nonostante, ci sono forti resistenze al diffondersi di pratiche di lavoro interprofessionali e orizzontali.
Il livello politico, il management, le professioni e le loro rappresentanze, dovrebbero riflettere sulla necessità di rivedere profondamente la normativa e la contrattualistica vigenti al fine d’attivare nelle aziende della sanità delle dinamiche e un dialogo tra settori e servizi che, a partire delle profonde differenze che li distinguono, porti al reciproco riconoscimento dei rispettivi saperi e funzioni e all’ integrazione nella diversità.

Affermare valori
Se la crisi economica e i tagli al suo finanziamento hanno messo in difficoltà il SSN, il degrado della politica e dell’etica pubblica ne stanno minando la sopravvivenza.
La sostenibilità del SSN passa per un ridimensionamento del ruolo della politica in sanità. Secondo il documento della Camera dei Deputati, XVII, n. 4, del 2014, “l'illegalità e la corruzione rappresentano circa il 5-6 per cento della spesa sanitaria (circa 5-6 miliardi di euro); si tratta di un fenomeno preoccupante che non solo incide sull’efficienza e sull’equità dei servizi, ma che mina alla radice il rapporto di fiducia tra istituzioni e i cittadini”. Sottrarre illecitamente risorse alla sanità significa rubare salute e deprivare il SSN dei valori su cui si fonda un servizio pubblico. Cittadini e operatori sanitari rivendicano un management eticamente credibile e capace di proporre come valori e come beni comuni la salute, la prevenzione, la cura e lo stesso SSN e le aziende che lo compongono.

Dieci suggerimenti dell’approccio sistemico
Il futuro del SSN è poco prevedile in quanto strettamente legato a quello del “contesto paese”. Sappiamo, però, che dipende anche dalla sua capacità di sviluppare al suo interno quelle dinamiche sistemiche che, già in atto, sono ostacolate da norme, contratti collettivi di lavoro e in assetti organizzativi che trovano riscontro in un consolidato di cultura e d’interessi materiali, carriere e vantaggi acquisiti, intrecciati con rendite di posizione e interessi locali, politici e sindacali. È inutile tentare di ignorare la complessità delle difficoltà che ostacolano una riconfigurazione del SSN e sta a noi accogliere, o meno, i suggerimenti dell’approccio sistemico.

1. I valori sono attrattori intorno ai quali un sistema socialmente costruito si configura; senza valori e senza un management eticamente credibile il SSN è destinato a perire.
2. La finalità del SSN non è produrre prestazioni ma salute; va ricomposta la frattura tra cura e prevenzione.
3. La complessità dei pazienti richiede cure integrate; va favorita una riconfigurazione sistemica delle aziende del SSN.
4. Le aziende e i servizi della sanità sono sistemi complessi; vanno trattati come tali.
5. In medicina, spesso, fare meno è fare meglio; l’appropriatezza va proposta ai professionisti come valore e misura.
6. Curare le malattie spesso non basta; per prenderci cura delle persone dobbiamo integrare i paradigmi biomedico e biopsicosociale.
7. La gestione di pazienti complessi non è riducibile all’evidenza; l’esperienza è importante.
8. La specializzazione senza integrazione crea spreco, rallentamenti e ridondanze; la frammentazione di cure e pazienti va sanata adottando una strategia dell’integrazione.
9. La continuità dell’assistenza richiede organizzazioni orizzontali; saper “lavorare insieme” è importante quanto sapere e saper fare.
10. L’integrazione organizzativa è l’innovazione più urgente; vanno favoriti lo sviluppo e la diffusione di forme di lavoro interdisciplinari e interprofessionali.
 
Fulvio Forino, presidente dell'Associazione Dedalo 97, Medicina e Complessità
 

22 dicembre 2014
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