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Serve un “ritorno al futuro” per la ricerca con lo “Stato Innovatore”

di Fabrizio Gianfrate

I dati Istat di questi giorni mostrano che la spesa totale per ricerca e sviluppo (R&S) è stagnante. Gap rilevante, il nostro. Difficile svoltare. La sfida globale del futuro si gioca proprio su innovazione e ricerca. La crescita e la competitività passano da lì. L’hanno capito da tempo negli altri Paesi, quelli avanzati

21 NOV - “Silvio, se ti tira lo devi alla ricerca!” campeggiava sul cartello della manifestazione dei ricercatori di qualche anno fa rivolto al Premier di allora e al suo hobby preferito. Slogan memorabile, meglio del “marciare per non marcire!” dei festosi gitanti su Roma in camicia nera nel ‘22.
 
I dati Istat di questi giorni ci mostrano la spesa totale per ricerca e sviluppo (R&S) stagnante ancora nelle retrovie EU e OCSE: 1,38% del PIL, 22 miliardi, metà della media EU, un terzo dei Paesi top. Il 58,3% è privata, in leggera crescita. Pubblica in calo: vale 9 miliardi, 6 alle Università, 3 ad altre Istituzioni. Ricercatori pubblici a tempo pieno al numero minimo in EU, e pure in decrescita.
 
E nel farmaceutico? È il nostro unico settore che in EU se la gioca persino coi tedeschi, ma per produttività ed export. Non sulla R&S, dove con 1,5 miliardi, pur primeggiando tra i comparti domestici, nel confronto internazionale resta cenerentola. Per di più il 60% di quel miliardo e mezzo, 900 milioni, è per studi clinici, cioè ricerca applicativa più che strettamente conoscitiva.
 
Non solo. Come quota mondiale, abbiamo il 4%circa dei ricavi (24,5 su 620 miliardi di euro) ma solo l’1,7% degli investimenti in R&S (1,5 su 85 miliardi). Non solo non finanziamo la nostra di ricerca ma paghiamo col nostro mercato quella negli altri Paesi.
 
In Italia va in R&S il 6,1% del fatturato industriale (1,5 miliardi su 24,5). Media mondiale 13,7% (85 su 620), EU 17,8% (29 miliardi su 163). E 29% in UK, 22% in G, 18% in FR, 57% in B, 66% in DEN, 122% in CH. I nostri grandi centri di ricerca per improduttività chiusi o pietosamente attaccati a qualche respiratore pubblico.
 
Non sorprenda: nell’OCSE siamo tra i meno laureati scientifici e ultimi nel leggere e fare di conto (ma del Grande Fratello VIP sappiamo tutto). Non sorprenda se il progetto di ricerca spaziale “top” si schianta su Marte. E poi che lo dichiarino un successo. Anzi no, colpa dei rumeni (da bar sport della Val Brembana).
 
Popolo d’inventori e di anarchici, ci descriveva affascinato Stendhal (che però era solito sovrastimarci). Dalle stelle di tanta genialità del passato alle stalle di oggi. La “macchina per istupidire” di Karl Kraus, la “vincente modernità della ricchezza senza cultura” di Pasolini, le politiche dissennate a favore di pochi e contro molti.
 
E così i migliori giovani scappano all’estero. Restano gli altri. Come nelle guerre: la meglio gioventù parte e i “minus habens” rimangono a perpetrare la razza peggiorandola. Un tempo si recuperava con gli invasori. Ora esportiamo cervelli e importiamo lavavetri.
 
Metafora del Paese. Ricerca e giovani, stessa semantica: speranza e fiducia nel domani. Infatti siamo parimenti avari con entrambi. Nella miope conservazione dell’esistente. Che significa indietreggiare perché intanto altrove corrono, con l’“Economia della Conoscenza” non con quella a noi cara “delle conoscenze”.
 
E se lo Stato si facesse innovatore? Grande da essere il principale soggetto di assunzione del rischio e dell’incertezza intrinseci alla ricerca conoscitiva, la “Big Science” del Nobel Samuelson, di cui poi, traslata applicativamente all’industria col “technology transfer”, diventa principale beneficiario in quanto collettività, sia dai prodotti che ne deriveranno sia economicamente come ritorno fiscale e occupazionale.
 
“Absit iniuria verbis”, ma è esattamente quanto facevano le tanto vituperate Partecipazioni Statali, dall’IRI di Beneduce nel ‘30 fino al loro vorace smembramento degli anni ’80, decenni di successi dell’innovazione del Belpaese: chimica, farmaceutica, materiali, energia, elettronica, informatica… Ritorno al futuro. Sto ragionando oggettivamente o sono condizionato da un “passatismo” tipo “si stava meglio quando si stava peggio” dettato dalla infelice condizione odierna della ricerca e dei ricercatori?
 
Non credo. Sono teorie interventiste dello Stato che se dottrinalmente attraversano Keynes, Schumpeter, Polanyi, Minsky e altri (per approfondire si vedano i recenti lavoro della Mazzucato dell’Università del Sussex), e pragmaticamente si riflettono nelle tradizionali politiche economiche USA “hamiltoniane” sull’innovazione, con il Governo che se ne assume l’onere del rischio e dell’incertezza dell’investimento. E siamo nel Paese al mondo più liberista e teso all’iniziativa privata.
 
Certo ci sono tanti “caveat”. Circa lo Stato capace di creare le condizioni normative per far usufruire equamente la collettività dei prodotti di quell’innovazione. E di ottenerne dai beneficiari privati dello sfruttamento commerciale dei prodotti derivati, sia le risorse fiscali per (ri)alimentare la ricerca conoscitiva sia il ritorno occupazionale, principali obiettivi dell’Istituzione. Condizioni invece spesso eluse da “transfer pricing” (es.: caso Apple-Irlanda) e delocalizzazioni produttive.
 
Gap rilevante, il nostro. Difficile svoltare. Ma la sfida globale del futuro si gioca proprio su innovazione e ricerca. La crescita e la competitività passano da lì. L’hanno capito da tempo negli altri Paesi, quelli avanzati. È la verità del cartello di quel ricercatore. Da urlare anche al Premier di oggi: “Matteooo, se ti tira lo devi alla ricerca!”. L’economia, ovviamente.
 
Prof. Fabrizio Gianfrate
Economia Sanitaria

21 novembre 2016
© Riproduzione riservata


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