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Intervista a Cavicchi. Quale sanità nella crisi. “E se ripartissimo dalla filosofia”?

di Cesare Fassari

Nel suo ultimo libro Ivan Cavicchi lancia un “manifesto” filosofico per un nuovo pensiero sanitario. Perché solo con un nuovo pensiero sulla medicina e sulla sanità si possono affrontare le sfide dell’oggi e del domani senza restare succubi del monopolio economicistico

12 GEN - Il 24 gennaio si svolgerà a Sesto Fiorentino presso “l’istituto oncologico fiorentino” un convegno nazionale  con  personalità e pensatori del mondo della medicina, il cui titolo  è anche quello dell’ultimo libro di Ivan Cavicchi: “Una filosofia per la medicina” (Edizioni Dedalo 2011).
E non è una coincidenza, come ci spiega lo stesso Cavicchi che abbiamo incontrato in questi giorni.

“Il convegno di Sesto Fiorentino nasce proprio dalla voglia di squarciare un velo di conformismo intellettuale attorno alle questioni della sanità”, ci dice. “O meglio, di portare nuove visioni e nuovi modi di pensare rispetto al monopolio dell’economicismo che sta occupando ogni spazio dialettico da troppi anni”.
“Per questo, insieme agli organizzatori del convegno, abbiamo pensato di partire dalla filosofia. Un modo diverso e forse per molti provocatorio, di parlare di riforme sanitarie. Perché poi di questo vogliamo parlare”.

E allora non sarebbe più giusto parlare di una nuova “politica” per la medicina, piuttosto che di “filosofia”?
In realtà i due aspetti coincidono, perché la medicina oggi ha bisogno, per tanti motivi, di un ripensamento e quindi di un pensiero riformatore, e quindi di una filosofia ispiratrice diversa. Sono anni che parliamo di sanità ma a paradigma-medicina sostanzialmente invariato. Oggi questo  è insufficiente, inefficace e pericoloso. Non si cambia la sanità senza ripensare la medicina.

E con gli economisti come la mettiamo?
Se per essere realisti dobbiamo parlare di soldi parliamo allora di quanto costa  la  medicina quando non è  in sintonia  né con la società né con l’economia . Siamo in pieno post-welfarismo cioè  dentro un conflitto  tra diritti/risorse  che scarica  enormi costi socio-economici  sui cittadini, gli operatori, i servizi. I razionalizzatori non sanno più dove sbattere la testa e cominciano a pensare che  per risparmiare sul pianoforte è necessario togliere dei tasti dalla tastiera o peggio tagliare le dita del pianista, o strappare pagine allo spartito, comunque suonare il meno possibile. Ti sembra realistico? In sanità, soprattutto dall’istituzione delle aziende in poi,  l’economia si è imposta come un pensiero unico basato sul potere assoluto del limite rispetto al quale qualsiasi altra razionalità, cultura, valore avrebbe dovuto subordinarsi. Di fronte al conflitto diritti/risorse qualsiasi pensiero unico è inadeguato e le sue pretese egemoniche  ridicole. Non ho alcuna difficoltà a dirlo: ripensare la medicina è un modo  per ridiscutere il pensiero unico dell’economia e cercare anche  altri tipi di soluzioni. Se continuiamo a  togliere pietre dal muro prima o poi il muro o sparisce o ci viene addosso.

Il tuo libro si conclude con un manifesto con “10 ripensamenti”. Ce ne vuoi parlare?
Il manifesto riguarda essenzialmente modi nuovi di concepire, gli ospedali, i servizi, quindi i malati, le malattie, le cure, la clinica, le metodologie, le relazioni, le terapie, le scelte dei trattamenti. Il ragionamento è semplice: siccome dal modello di conoscenza dipende il modello di prassi, quindi i suoi costi, le sue possibilità, i suoi problemi, ripensare il modello di conoscenza equivale a ripensare la prassi e di conseguenza i costi, le possibilità, i problemi. Il modello di conoscenza è come una “cassetta degli attrezzi”che gli operatori usano per curare un malato. Dentro vi sono logiche, modi di ragionare, concezioni varie, procedimenti, precetti, regole, criteri, norme comportamentali, strumenti vari, servizi vari, che nel loro insieme, sovraintendono tutta la prassi clinica. Questa cassetta  è ferma, nei suoi fondamentali, alla nascita della medicina scientifica avvenuta tra 800 e 900 e non è mai stata aggiornata se non superficialmente e parzialmente.
Oggi l’ospedale per quanto riorganizzato e tecnologizzato, conosce il malato con nuovi strumenti scientifici, ma con lo  stesso modello clinico di un secolo fa. Dalla seconda metà del 900 in poi l’intera conoscenza di matrice positivista è stata sottoposta ad una severa confutazione. Questo in medicina ancora non è avvenuto.
 
Con quali conseguenze?
La conoscenza è un fattore produttivo come molti altri, con  precisi costi  intellettuali, sociali economici. Oggi la medicina ha un apparato concettuale sostanzialmente valido ma con evidenti anacronismi e per di più aggravato da diverse aberrazioni soprattutto metodologiche (si pensi alla medicina difensiva, al contenzioso legale, alla resilienza, al proceduralismo, ecc). Questa medicina costa  molto di più di quella che potrebbe costare se fosse una medicina ripensata nell’attualità.

In questo contesto come valuti gli sforzi comunque portati avanti in questi anni sul piano delle best practice, della qualità, dell’ Ebm, di case management ecc. Fino alla parola d’ordine per antonomasia, ribadita anche dall’attuale ministro Balduzzi, e cioè l’appropriatezza?
Sono tutte parole d’ordine, nei casi migliori, con un significato migliorativo della prassi, cioè sono modi per razionalizzare soprattutto i comportamenti professionali considerati fonte di spesa, ma a modelli invariati. Ognuna di queste parole tradisce forti intenti economicistici. L’appropriatezza, per esempio,  è invocata per risparmiare e nel caso dei Drg per giustificare semplicemente una riduzione dei livelli assistenziali.
 
D’accordo ma anche tu quando parli di una medicina non conforme ai bisogni sociali e ai problemi dell’economia, poni un problema di appropriatezza. E anche tu parli  dei suoi costi.
Come spesso accade quando si copiano i concetti dagli inglesi si creano degli equivoci. In realtà Balduzzi sembra parlare più di “appropriateness” intendendo il rapporto costo/efficacia delle prestazioni, io parlo di “propriety” per indicare dei modelli di medicina adeguati ai tempi. Ma sui costi vorrei spiegarmi meglio. Se, ad esempio, il modello di ospedale nonostante le sue numerose riorganizzazioni,  è improper (inadeguato) è perché esso, nel mentre tutto è cambiato, è rimasto, come modello, unchanged (invariante).  Se il modello di ospedale non cambia mentre tutto cambia si dice regressive (regressivo). La regressività dell’ospedale è,quindi, un problema di modello. Dal momento che la regressività ha un costo si può parlare di  modello di ospedale s-conveniente in due sensi: sociale rispetto ai malati, ed economico rispetto alle risorse. Per l’economia ciò sarà la prima causa di antieconomicità  e per i cittadini, la prima causa di delegittimazione sociale.

Vorrei provare a riassumere: una medicina inadeguata è sconveniente quindi antieconomica…per cui, scusami se insisto, ma non mi pare bizzarro che Balduzzi richiami l’attenzione sull’appropriatezza.
La differenza è che lui si preoccupa, in costanza di modelli, dei costi delle prestazioni io dei costi sociali ed economici dei  modelli. La nostra idea di antieconomicità è diversa: per me essa non è semplicemente un problema  di  appropriateness delle prestazioni  ma riguarda la propriety dei modelli. Quando i modelli sono inadeguati i benefici  delle prestazioni anche quando sono appropriate, nel senso che dice Balduzzi, tendono ad essere più bassi dei costi e i costi tendono a essere relativamente incomprimibili. In un ospedale, in un distretto, o in un ambulatorio, posso risparmiare qualcosa con l’appropriatezza ma i costi dei modelli restano incomprimibili. L’ingenuità dei razionalizzatori è di pensare di fare appropriateness senza fare propriety. Cioè di fare miglioramento senza fare cambiamento. Se non ripensiamo i modelli pur assicurando prestazioni appropriate, non avremo da nessuna parte. Ripensare la propriety invece riduce i costi dando molti più benefici di quelli attesi dalle solite costosissime riorganizzazioni strutturali. La sfida è ripensare la propriety dei modelli.

Viene da pensare che sino ad ora le soluzioni tentate sono state di superficie, mentre quelle da percorrere dovrebbero essere ben più profonde.
Su questo non ho dubbi. Tra il rimbiancare la casa per appigionarla meglio, come vogliono le regioni, o il demolirla per costruirne un’altra a più pilastri, come vogliono i neomutualisti e i neoliberisti, per me c’è una terza via, quella del ripensamento dei modelli. Quel genere di ripensamento al quale ci siamo sottratti abbandonando la riforma del ‘78. Purtroppo il ripensamento dei modelli è una questione ancora fuori dalle logiche ordinarie della politica.  Cioè è una idea che, ancora, chi conta non è riuscito, per propri limiti e propria formazione, neanche a concepire. Ripensare la medicina significa ripensare profondamente i modelli. Non è vero che nel post-welfarismo dobbiamo essere per forza iniqui, e meno che mai che è inevitabile  distruggere quello che faticosamente è stato fatto in questi 30 anni. Ma per  ripensare i modelli abbiamo bisogno di quello che non c’è, vale a dire di un vero pensiero riformatore. Questo è il problema vero della sanità.
 
Cesare Fassari

12 gennaio 2012
© Riproduzione riservata


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