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Il sistema ospedaliero italiano non è in declino. Ecco perché

di Vittorio Mapelli

La tesi secondo cui il sistema ospedaliero italiano sarebbe stato smantellato nell’ultimo decennio, in ossequio ai vincoli imposti dall’UE e al rispetto del patto di stabilità, appare viziata da ideologismi e non fondata su un esame obiettivo dei dati. I continui progressi nell’efficacia, qualità e appropriatezza dei ricoveri testimoniano che il sistema ospedaliero italiano ha retto, nonostante il blocco delle assunzioni e la scarsità di risorse finanziarie

27 MAR - Troppo pochi posti-letto in Italia? Una tesi ricorrente, sostenuta anche da questo giornale [1], per spiegare le attuali difficoltà del nostro sistema ospedaliero, starebbe nel taglio dei posti-letto e del personale, avvenuta nell’ultimo decennio (2007-2017). E’ una tesi suggestiva, ma molto parziale e persino fuorviante, se non si considera l’insieme dei dati: non solo di quelli di struttura (n. istituti, posti-letto e personale), ma anche di attività (ricoveri e giornate di degenza). Perché la riduzione dei posti-letto è solo la conseguenza di un terremoto avvenuto nel decennio, in cui i ricoveri sono diminuiti di 3,4 milioni e le giornate di degenza di 16,6 milioni. Diverso discorso per la contrazione del personale, determinata invece dal blocco delle assunzioni, condotta dai vari governi in carica, ma comunque coerente con la riduzione dell’attività ospedaliera.   
 
Il quadro completo dei dati è illustrato nella tab. 1. Per i dati di struttura e di personale la fonte è l’Annuario statistico del SSN, mentre per quelli di attività è il Rapporto annuale sull’attività di ricovero ospedaliero. Dati SDO [2], entrambi del Ministero della Salute. I dati di attività comprendono i ricoveri ordinari (per acuti, riabilitazione, lungodegenza, neonati) e quelli diurni (day hospital e day surgery).
 
Innanzitutto, la riduzione del numero di strutture da 1.197 nel 2007 a 1.000 nel 2017 (-197) può essere letta come un artefatto, piuttosto che come una scomparsa di ospedali (tab. 1 in fondo). Nel decennio si è registrata, infatti, una riduzione di 109 presidi ospedalieri a gestione ASL e di 60 case di cura accreditate, come conseguenza della norma (L. 135/2012 e Regolamento n. 70/2015) che ha posto come condizione per l’accreditamento la soglia minima di 60 posti-letto. Si è trattato quindi di fusioni o di accorpamenti (come per le 28 Aziende ospedaliere), e non di chiusura fisica di strutture, che eventualmente sono state riconvertite.
 
La riduzione dei posti-letto è certamente avvenuta, ma occorre distinguere tra p.l. programmati e p.l. utilizzati [3]. I posti-letto programmati si sono ridotti di -45.807 unità in complesso (di cui -39.477 negli istituti pubblici ed equiparati [4] e -6.330 nelle case di cura accreditate), mentre quelli effettivamente utilizzati leggermente di meno -44.702. La riduzione dei letti è, allo stesso tempo, conseguenza e causa dell’aggiornamento degli standard ospedalieri da parte del governo. Nel 1969 il primo standard di dotazione era di ben 12 p.l. per 1000 abitanti [5]; 1985 fu fissato a 6,5 p.l.; nel 2005 fu portato a 4,5 e da ultimo, nel 2012, a 3,7 per 1000 (di cui 0,7 per la riabilitazione). La dotazione odierna di 3,5 p.l è in linea con gli standard ministeriali. Il ridimensionamento (downsizing) dei posti-letto è un fenomeno spontaneo e universale, che ha luogo in Italia come in altri paesi (tab. 2) da almeno cinquant’anni. Gli standard ospedalieri sono continuamente aggiornati per tenere il passo con le nuove tecnologie e innovazioni terapeutiche, che oggi consentono di trattare in day hospital, day surgery o addirittura in ambulatorio casi che in passato erano ricoverati per più giorni.   
 
Il personale degli ospedali pubblici è diminuito da 550.140 a 512.166 unità nel decennio 2007-2017 (-37.971) e in particolare i medici sono passati da 99.073 a 92.950 e gli infermieri da 245.883 a 233.053. Tuttavia la dotazione di personale (incluso anche quello tecnico e amministrativo) per p.l. è leggermente aumentata da 2,7 a 3,1 e, se rapportata ai letti occupati, è cresciuta ancora di più da 3,2 a 4,4. Se si considera il personale per 100 ricoveri – una misura grezza di intensità assistenziale – l’indice è migliorato da 5,3 a 7,9. La riduzione del personale è da addebitare alle misure di contenimento della spesa, previste dalla L. finanziaria 2010 (L 191/2009) – sbloccate solo nel 2019 – che ha imposto un tetto alla spesa storica del personale (budget 2004 -1,4%) consentendo, di fatto, il solo turnover e bloccando persino il turnover nelle 10 regioni sottoposte ai piani di rientro. E’ indubbio che queste misure, seppure non abbiano peggiorato la disponibilità di personale per p.l., hanno però bloccato possibili miglioramenti nella qualità dell’assistenza, se è vero che in alcuni paesi più avanzati la dotazione è doppia rispetto a quella dell’Italia (R.U. e Danimarca 7,9 rispetto a 3,3 dell’Italia) (tab. 2).
 
I ricoveri, ordinari e diurni, si sono ridotti del 28% scendendo da 12,3 a 8,9 milioni (-3,4 milioni), mentre le giornate di degenza sono crollate da 76,5 a 59,9 milioni (-16,6 milioni). Il tasso di ospedalizzazione – la domanda di ricovero – è sceso da 226 a 147 per 1000 abitanti, un dato quest’ultimo inferiore persino allo standard di 160 per mille previsto dalla legge. Le cause di questa caduta sono molteplici e andrebbero indagate a fondo con gli strumenti dell’epidemiologia. Qui basti suggerire, tra le spiegazioni, il progresso tecnologico (diagnostica, chirurgia, farmaci), il potenziamento dei servizi extra-ospedalieri (territoriali, specialistici, riabilitativi), la migliore organizzazione ed efficienza ospedaliera, la riduzione dei ricoveri inappropriati. E’ un trend costante e continuo, in atto almeno dal 1998, dopo l’introduzione dei DRG.
 
All’interno di queste tendenze si osserva un progressivo guadagno di quote di mercato da parte delle case di cura private accreditate e, presumibilmente, degli altri istituti privati equiparati al pubblico. Il numero di ricoveri – e quindi di DRG remunerati – si è incrementato del 26%, passando da 1,9 a 2,4 milioni, e la quota di mercato dal 15 al 27% circa. Per converso, i ricoveri presso le strutture pubbliche sono scesi da 10,4 a 6,5 milioni (-38%) e la loro quota è passata dall’85 al 73% circa del totale SSN.
 
Gli indici di efficienza sono generalmente (e apparentemente) peggiorati per gli ospedali pubblici e migliorati per le case di cura accreditate. Il tasso di occupazione dei p.l. è sceso dall’84,5 al 71% [6] negli ospedali pubblici, la durata della degenza è leggermente aumentata da 6,0 a 6,6 giorni (senza aumento, peraltro, del peso medio dei DRG) e il tasso di rotazione dei ricoveri per p.l. è sceso da 51,1 a 39,3. Al contrario, nelle case di cura private il tasso di occupazione è salito dall’81,6 al 106,8 (!), il tasso di rotazione dal 41,3 al 54,3 a fronte di una degenza media invariata di 7,2 giorni. Va però osservato che il mix della casistica nelle case di cura è assai diverso da quello del pubblico.      
 
La contrazione dei ricoveri nelle strutture pubbliche ha, quindi, lasciato liberi degli spazi, che non avrebbe avuto senso mantenere operativi. I reparti vuoti possono richiedere, infatti, lavori di manutenzione, condizionamento, energia. Conservando lo stesso numero di p.l. del 2007 il tasso di occupazione oggi risulterebbe solo del 57%!
 
Questi sommovimenti sono avvenuti, tuttavia, in un contesto di generale e progressivo miglioramento degli indicatori di appropriatezza, qualità ed efficacia dell’assistenza ospedaliera, come testimoniato dalla Griglia di monitoraggio dei LEA e dal Programma Nazionale Esiti. Secondo il rapporto 2017 della Griglia “Nel 2017 risultano valutate positivamente ben 8 regioni…Sei regioni si collocano su un livello minimo accettabile”. Sommando le regioni a statuto speciale si arriva a 16 regioni adempienti, quando nel 2012 erano solo 12. E secondo il Rapporto PNE 2018 “Il Sistema Sanitario Nazionale, come misurato in PNE, continua a restituire segnali di miglioramento per la maggior parte degli esiti”.
 
 
Gli ospedali nei paesi OCSE
Un’altra tesi ricorrente in questi tempi è che l’Italia dispone di pochi letti ospedalieri, rispetto ad altri paesi come la Germania, la Francia, il Giappone o la Corea e quindi si trova inadeguata ad affrontare l’epidemia da coronavirus. I dati OCSE della tab. 2, relativi a tutti i tipi di ospedali (generali, specializzati, psichiatrici; pubblici, privati, non profit) offrono  una giusta comparazione con alcuni dei paesi più sviluppati [7], simili al nostro per dimensione territoriale o demografica. Il confronto, peraltro, non è sempre facile a causa della diversa definizione e organizzazione del settore ospedaliero nei vari paesi.
 
Nel 2017 in Italia si aveva la dotazione di 3,2 posti-letto per 1000 abitanti, un tasso di spedalizzazione di 116 per mille e una degenza media di 7,8 giorni. Si collocava sotto la media dei paesi OCSE per dotazione di posti-letto, insieme ad un gruppo di paesi economicamente più sviluppati: Paesi Bassi (3,3), Finlandia (3,3), Stati Uniti (2,8), Regno Unito (2,5), Canada (2,5) e Svezia (2,2). Il tasso di ospedalizzazione era simile a quello di USA (125), R.U. (131), Svezia (131), Spagna (114) e la degenza media vicina a quella di Canada (7,4) e Spagna (7,3).
 
All’estremo più basso, un gruppo di paesi sviluppati presenta una disponibilità di posti-letto ancora più bassa dell’Italia – USA, Nuova Zelanda, Danimarca, RU, Canada, Svezia –, nonostante la grande estensione del loro territorio nazionale, mentre al lato opposto alcuni paesi hanno una dotazione di p.l. “anomala”, come Giappone (13,1), Corea (12,3), o molto elevata, come Francia (6,0) e Germania (8,0). Il Giappone e la Corea considerano ospedali anche le cliniche mediche con almeno 30 letti, mentre Francia e Germania hanno un numero molto elevato di letti di riabilitazione (105.725 la Francia e 164.266 la Germania, a fronte di 25.131 dell’Italia).
 
Tassi di spedalizzazione simili a quelli dell’Italia (116 per 1000 ab.) si registravano negli USA (125), Regno Unito (131) e Spagna (114) e, ancora più bassi, in Canada (84) e Paesi Bassi (96). In altri paesi (Francia, Germania, Corea, Giappone) erano più elevati perché sono prevalenti altre tipologie di ricoveri (riabilitazione, lungodegenza).
 
Ciò che differenzia il sistema ospedaliero italiano da quello dei paesi più sviluppati è invece la dotazione di personale per posto-letto. A fronte di 3,3 addetti per p.l. in Italia, si hanno 7,9 unità nel Regno Unito e in Danimarca, 7,3 negli USA e 7,0 in Canada. In Spagna sono 4,1 e nei Paesi Bassi 4,6.
 
In tutti questi paesi OCSE è avvenuta, come in Italia, una riduzione del numero di posti-letto per 1000 abitanti nell’ultimo decennio, anche in quelli con una dotazione già bassa nel 2007: Spagna (da 3,3 a 3,0), USA (da 3,1 a 2,8), Danimarca (da 3,7 a 2,6), Regno Unito (da 3,4 a 2,5), Canada (da 3,0 a 2,5), Svezia (da 2,9 a 2,2).
 
Conclusioni
La tesi secondo cui il sistema ospedaliero italiano sarebbe stato smantellato nell’ultimo decennio, in ossequio ai vincoli imposti dall’UE e al rispetto del patto di stabilità, appare viziata da ideologismi e non fondata su un esame obiettivo dei dati. Il ridimensionamento della rete ospedaliera è la conseguenza dei profondi cambiamenti introdotti dalle nuove tecnologie sanitarie (farmaci, diagnostica, chirurgia) e dall’organizzazione dei servizi intra- ed extra-ospedalieri, che hanno indotto un crollo della domanda di ricovero e lasciato molti posti-letto inutilizzati. Ne è la prova che gli stessi cambiamenti hanno attraversato anche altri paesi dell’UE e dell’OCSE, che non avevano problemi di deficit o di debito pubblico, come il nostro.
 
I continui progressi nell’efficacia, qualità e appropriatezza dei ricoveri testimoniano che il sistema ospedaliero italiano ha retto, nonostante il blocco delle assunzioni e la scarsità di risorse finanziarie, grazie soprattutto allo spirito di dedizione di tutto il personale e all’eccellente tradizione della medicina italiana. Passata la dura prova dell’epidemia da COVID-19, il SSN tornerà resiliente, ma con l’apporto di maggiori risorse umane, tecnologiche, finanziarie saprà vincere anche la sfida della sostenibilità dei prossimi decenni.
 
Vittorio Mapelli
ex-professore associato di economia sanitaria
Università degli Studi di Milano
 
Gentile Professore
grazie per il suo prezioso contributo. Spunti, riflessioni e critiche costruttive aiutano sempre l'analisi. Vale però la pena sottolineare come nel nostro articolo, scevro ovviamente da qualsiasi ideologia, oltre ad evidenziare come la riduzione delle strutture e dei posti letto ospedalieri sia anche frutto della maggiore appropriatezza e del progresso scientifico si rimarca però anche come, a fronte del contenimento dei servizi ospedalieri, non si sia potenziata adeguatamente l'assistenza territoriale, aspetto purtroppo che oggi con l'emergenza da Covid 19 è del tutto evidente.
 
Insomma, gli ospedali  avranno pure retto il disinvestimento ma il territorio purtroppo no, segnando inequiviocabilmente quello che mi sento di confermare come il lento declino del nostro Ssn pubblico.
 
Luciano Fassari
 
 


[2]
SDO Scheda di dimissione ospedaliera, la scheda che rileva le caratteristiche del paziente ricoverato (età, sesso, diagnosi, ecc.) e consente l’attribuzione  del DRG per la remunerazione del ricovero

[3]
Numero medio di letti mensilmente utilizzati.  Gli indici che seguono sono sempre calcolati sui posti-letto utilizzati

[4]
Secondo la classificazione del Ministero, gli ospedali pubblici comprendono anche gli istituti privati equiparati al pubblico (es. IRCCS e fondazioni private, policlinici universitari privati, ospedali religiosi classificati, ecc.)

[5]
La degenza media era di 15 giorni negli ospedali generali

[6]
Un tasso di occupazione del 75% è considerato ottimale

[7]
Si sono tralasciati i paesi con un Pil pro-capite inferiore a quello dell’Italia per omogeneità di confronto


27 marzo 2020
© Riproduzione riservata

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