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Costi standard. Spandonaro (Ceis): un decreto che non convince


L’economista di Tor Vergata ha esaminato per QS la bozza di decreto sui costi standard sanitari visionata giovedì scorso dalle Regioni. Un testo che ha il pregio della semplicità “politica” ma che di fatto lascia intatto il criterio della spesa storica quale reale parametro per il riparto del fondo sanitario.

20 SET - Dopo molte discussioni, e altrettanti voli pindarici, con la bozza di Decreto sui costi standard il dibattito sull’applicazione del federalismo è finalmente “atterrato” e, come era lecito attendersi, le aspettative si ridimensionano fortemente, mostrando tutta la inadeguatezza dell’approccio sin qui tenuto.
Fermo restando che di una bozza si tratta e che quindi molte cose potrebbero cambiare nel testo definitivo, resta il fatto che, nel testo visionato con le Regioni giovedì scorso, i costi standard di fatto spariscono, sostituiti dalla spesa storica (quella che si voleva eliminare), anche se ora limitata a quella delle Regioni risultate virtuose negli ultimi esercizi; il fabbisogno standard è, a sua volta, individuato nel FSN programmato (seppure con alcuni punti oscuri su cui si tornerà).
La struttura del Decreto, è semplice: si individuano le Regioni benchmark, e poi si usano le relative spese sanitarie pro-capite pesate, applicandole a tutte le altre Regioni.
La semplicità e l’evitare di dover mettere in discussione (almeno apparentemente) alcuno degli assetti attuali, sono probabilmente le doti principali (in termini politici) della bozza di Decreto.
L’approccio, a ben vedere, riprende nella sostanza quello di una proposta avanzata durante l’estate dal CERM, fortunatamente emendandola di alcuni errori evidenti, quali il considerare le spese complessive (e quindi anche i livelli oltre LEA), e di alcune scelte, quanto meno arbitrarie, quali quella sulla pesatura per età; sparisce anche, opportunamente, il richiamo alla qualità, davvero troppo naive nella citata proposta, che individuava le Regioni qualitativamente virtuose mediante la mobilità attiva (sarebbe facile costruire controesempi per mettere in discussione il criterio).
Ma la proposta CERM e la bozza di Decreto continuano, a mio parere, a condividere lo stesso “peccato originale”, ovvero una sostanziale tautologia nella definizione di Regione virtuosa (o benchmark).
Un sistema di costi standard dovrebbe, infatti, servire a garantire un finanziamento equo, tale da permettere alle Regioni efficienti di vedere finanziati i LEA in equilibrio, così che gli eventuali disavanzi siano poi misure indiscutibili di inefficienza e, come tali, da ripianare strettamente a carico dei bilanci delle Regioni che li abbiano generati. Un sistema equo deve, quindi, incorporare il principio dell’efficienza ma anche quello del bisogno, perché appare evidente che non costa uguale servire popolazioni con caratteristiche differenti. I ricercatori più attenti, da tempo, hanno segnalato che il problema risiede nella endogeneità delle due dimensioni, il che semplicemente significa che, prima di poter operare il benchmarking, va garantito che si confrontino “mele con mele” e “pere con pere”. Se si confrontassero le spese di Regioni con popolazioni diverse (“pere e mele”), non necessariamente quella che spende meno sarebbe la più virtuosa (e infatti le Regioni del Sud in assoluto spendono procapite mediamente meno di quelle del Nord). La bozza di Decreto, per ovviare al problema, confronta le Regioni in base alle spese procapite pesate (ovvero, in via di principio, eliminando le differenze derivanti dalla diversa struttura della popolazione), usando di fatto i pesi sin qui utilizzati per il riparto: dopo di che, assume che le Regioni virtuose siano quelle in equilibrio finanziario, ovvero quelle che riescono a “stare” nell’attuale sistema di riparto… ma quello che si voleva mettere in discussione era proprio l’attuale sistema di riparto, che invece diventa l’assunto di base del processo!
 
La ragione politica di ciò, mi pare sia la pervicace resistenza delle Regioni (presumibilmente del Nord) a mettere apertamente in discussione il criterio di riparto adottato sulla base della L. 662/1996, che invece è l’essenza del problema; la politica ne ha preso atto, arretrando rispetto alla necessità di definire una nuova pesatura, con la “scusa” che la questione è tecnicamente complessa.
Se si assume implicitamente che i pesi, ovvero la stima del bisogno, vada bene come è, ovvero che il riparto storico sulla base del bisogno sia corretto, allora a che serve tutto il resto? In teoria a misurare l’efficienza che però, ripeto, è cosa ragionevolmente fattibile solo dopo avere sgombrato il campo dal dubbio che i pesi adottati per omogeneizzare le popolazioni siano corretti e quindi non generino distorsioni nel benchmarking.
Se si assume, come nel Decreto, che i criteri di riparto vadano bene per definizione, ridefinire la quota procapite da finanziare in base alla spesa delle Regioni virtuose cosa cambia? La logica dice che non dovrebbe cambiare nulla, a meno che per effetto delle modalità di calcolo, possa modificarsi il livello o la distribuzione del finanziamento.
Qui mi sembra che si trovi un lato davvero oscuro della proposta.
Infatti, sin dalle premesse del Decreto ci si preoccupa di affermare che il fabbisogno, ovvero il finanziamento, è complessivamente quello programmato (almeno per il 2011 e 2012). E la cosa è ribadita nell’art. 1 e di nuovo, in modo ancora più esplicito, nel comma 4 dell’art. 3. Ma se i pesi (per età) sono quelli usati sinora per spartire la torta del finanziamento, e se ora li applichiamo alla sola spesa storica delle migliori (ovvero presumibilmente più efficienti), l’unica cosa di nuovo che può succedere è che emerga come il livello assoluto delle risorse attuali sia sovrastimato (se si rivede l’esercizio proposto questa estate dal CERM, seppure con i difetti sopra evidenziati, si arrivava a dire che si potevano “risparmiare” 4,3 miliardi).
E, infatti, leggendo la bozza di Decreto sembra di capire che questa informazione intrinseca nel metodo (che personalmente ritengo distorta dal “vizio di origine” sopra evidenziato, come anche dall’eccessiva semplicità dell’algoritmo) venga volutamente trascurata e che, invece di usare i livelli assoluti di spesa procapite pesata delle Regioni virtuose, si simuli “in percentuale” un nuovo riparto: in tal modo si ha la garanzia di ridividere sempre la stessa torta, ma evidentemente in percentuali diverse da quelle di partenza.
Alcune domande sorgono spontanee: che senso logico ha assumere i pesi (e quindi un criterio di riparto) per poi generarne uno diverso? Perché, poi, impostare un criterio di calcolo sui livelli di costo assoluti e poi usarlo per definire i costi relativi? Per quanto tempo, infine, varrà il principio che la torta (fabbisogno) è predefinito?
Su questo ultimo punto, osserviamo ancora che, se emergesse che la proiezione delle spese procapite delle Regioni virtuose davvero ammontasse a meno degli attuali 107 mld di finanziamento (ad esempio 103 mld secondo le stime estive del CERM), pur volendo mantenere fermo il Fondo programmato sino al 2012 per ragioni di stabilità, sarebbe difficile dal 2013 evitare di ammettere che andrebbe logicamente ridotto: ovviamente non si vogliono fare processi alle intenzioni, ma il metodo per come è costruito sembra preludere a questo tipo di esito.
Comunque, per stare ai fatti, la bozza di Decreto sceglie la strada di ignorare questa possibile incoerenza e si limita a rideterminare il riparto. Con questa chiave di lettura è evidente che le Regioni che già oggi possono sentirsi penalizzate dai pesi del riparto, hanno ora ragione di temere di vedersi tagliati altri fondi.
Ma quel che più interessa qui è chiedersi quale sia il senso di un sistema che parte dai parametri di un riparto esistente, per arrivare a generarne un altro. Personalmente colgo solo un elemento, ovvero l’introduzione di un criterio nuovo, aggiuntivo a quello del bisogno rappresentato dai pesi; questo elemento aggiuntivo, che spiega come mai il risultato ex post possa cambiare, si riassume nell’introdurre un premio per gli efficienti (a scapito, se la torta è data, dei non efficienti).
Questo esito in primo luogo ribadisce, a mio parere, l’importanza di mettere in discussione il criterio di individuazione del benchmark, ovvero la determinazione dei pesi. E, poi, se incentivare l’efficienza è certamente cosa opportuna, spostare risorse da chi è meno efficiente a chi lo è già, non sembra la strada che si voleva prendere: l’obiettivo più socialmente corretto, a me pare, rimanga quello di dare alle Regioni le risorse necessarie per erogare le prestazioni sanitarie in condizioni di efficienza: non più e non meno. Penalizzare ulteriormente le Regioni, colpevolmente, inefficienti, servirebbe solo a rallentare o inibire i processi virtuosi che pure alcune Regioni in disavanzo stanno cercando di attivare.
 
Quanto sopra mi porta a consolidare la mia convinzione, più volte espressa e condivisa con ben più illustri colleghi, che “i costi standard non servano”: va, invece, fatto uno sforzo condiviso (anche se non può ridursi ad un banale benchmark) per ridefinire i pesi con cui già oggi si fa il riparto (la spesa storica in senso proprio in Sanità non si finanzia più da anni, se non ex post), lasciando poi che la torta sia definita in base a criteri macroeconomici di programmazione pluriennale.
Per completezza, alcune altre questioni, attinenti alle technicalities, e certamente minori, ma non per questo trascurabili, vanno anch’esse citate.
La prima è che tornare ai soli tre macrolivelli (ospedaliera, distrettuale, prevenzione) rappresenta un ingiustificato passo indietro. Già nella pratica del riparto di questi ultimi anni si era visto che i pesi, ovvero le curve di costo per età cambiano significativamente fra sottoaree (basti pensare alla farmaceutica vs la specialistica nella distrettuale): semmai questa evidenza andava rafforzata scorporando ulteriormente le voci, non certo aggregandole.
Aggiungo che il vincolo dei LEA appare sempre meno sostenibile, data l’autonomia regionale che dovrebbe esercitarsi sull’efficienza allocativa ancora prima che su quella tecnica: il reiterato richiamo al rispetto delle percentuali sui tre macrolivelli, appare un eccesso di programmazione centralista, incoerente con il processo federalista e con il criterio di responsabilizzare le Regioni sul risultato (equilibrio) finale.
Altra questione secondaria, ma non banale, è che la giusta evidenziazione di quale sia l’ammontare di risorse da prendere in considerazione, evidenzia come nella torta da suddividere (fabbisogno) sia compresa una quota di entrate proprie. Questo vuol dire che il finanziamento dei LEA non è tutto garantito da risorse mediate a livello centrale, in quanto una parte è istituzionalmente a carico delle Regioni.
Assumendo quanto sopra (senza indagarne la ratio o quanto meno le motivazioni), allora è necessario osservare che sul piano dell’equità è difficile accettare che il bisogno su cui ripartire si possa limitare ai pesi (sostanzialmente per età) adottati: entra, infatti, in gioco anche la (diversa) capacità fiscale delle Regioni ovvero di “approvvigionarsi di entrate proprie”. L’assenza nel sistema di pesi di parametri che riguardino la capacità fiscale, come anche il peso dell’offerta, è un ulteriore fattore che incrina l’assunzione che le Regioni benchmark siano identificabili in quelle che sono in equilibrio.
Che il metodo sia “troppo” semplice è, infine, confermato dalla non chiara indicazione relativa alla sterilizzazione degli ammortamenti, che magari dipende solo dall’inadeguatezza dei sistemi contabili, ma appare difficilmente spiegabile: a meno che non si pensi di ricominciare a finanziare centralmente tutti gli investimenti.
La riflessione finale è che certamente l’algoritmo da adottare per il riparto può e deve essere semplice, data la natura politico istituzionale del sistema di finanziamento, ma non per questo si può e si deve rinunciare a utilizzare un po’ di tecnica (per non parlare di “scienza”) per proporre dei pesi ragionevolmente significativi (e senza che questo debba implicare la “paralysis by analysis”).
Inoltre non si può, per amore della semplicità, rinunciare alla coerenza logica dell’impianto: da questo punto di vista il d. lgs. n. 56/2000 appariva ben più ragionato e certamente potrebbe essere recuperato almeno in alcune parti. In ogni caso sia il d. lgs. n. 56/2000, che l’attuale bozza di Decreto, rimangono di fatto omissivi sul criterio di stima del bisogno sanitario, ovvero sulla determinazione dei pesi: l’auspicio è che prima o poi ci si rassegni ad ammettere che la questione sostanziale è proprio quella del metodo di stima dei pesi, sui cui si basano tutti gli altri ragionamenti.

Federico Spandonaro, coordinatore Ceis Sanità, Università Tor Vergata, Roma

20 settembre 2010
© Riproduzione riservata


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