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Per gli infermieri è ora di cambiare paradigma

di Giuliana Morsiani

08 MAR -

Gentile Direttore,
nel leggere il documento della FNOPI del Consensus Conference pubblicato su QS e il contributo apportato da De Caro, non posso che esprimere il mio accordo con quanto espresso dal collega nel vedere “taluni limiti di chiarezza, di consistenza, di vision, di sostenibilità”.

Il primo pensiero nel leggere il dibattito è quello di voler portare alla consapevolezza la profonda differenza che c’è tra un’assistenza infermieristica che trae le sue radici su presupposti del Caring, rispetto a un’assistenza infermieristica che poggia su presupposti del “curing”.

Posti agli estremi di una asse, i due verbi, seppur nella loro necessaria complementarità nell’ambito dell’infermieristica, accedono a due impostazioni differenti.

Il “to cure” trae i fondamenti epistemici nella natura bio-medica, organicistica, con un’assistenza che si attualizza in prassi prestazionalistiche e della presa in carico del malato con una impostazione del “mi occupo”.

A differenza, il “to Care”, dal significato di “tu mi interessi come persona”, volge l’attenzione alla persona intera, al suo essere in quello stato di sofferenza e precarietà quale ultimo baluardo a difesa della sua essenza più intima.

Porsi la questione di quale sviluppo per l’infermieristica, a mio avviso non può che partire dal ripensare questo posizionamento.

Provare a disegnare quale futuro per l’infermieristica significa innanzitutto entrare nel quartier generale, nei presupposti ontologici, nel rivedere i criteri con cui si definiscono i concetti cuore della disciplina, quelli che l’infermieristica riconosce in “persona, ambiente, salute e assistenza infermieristica”.

Significa analizzarli per vedere quanto il loro posizionamento sia ancora attuale e quanto si sia discostato dalle esigenze di una popolazione che ha già compiuto diversi passi: una transizione demografica (più anziana), epidemiologica (cronicità e polipatologie) e sociale (nuclei monofamiliari), trovandosi qualche semaforo più avanti rispetto a modalità assistenziali che non hanno accennato a grandi movimenti.

A noi ora è richiesto di compiere un importante passo evolutivo che corrisponde a una vera e propria transizione assistenziale.

Non solo mirando a rinforzare il “contenitore” con importanti tasselli come il riconoscimento della Direzione assistenziale a livello strategico, le prescrizioni infermieristiche, il vincolo di esclusività, la docenza universitaria…

Elementi importanti che rinforzano il processo di professionalizzazione, ma che devono andare di pari passo con l’evoluzione dei “contenuti” in grado di poter offrire “qualcosa di valore”.

Un contro-valore che si misuri in salute prodotta. In utilità sociale, spostando concettualmente il focus, dalle prestazioni ai risultati. A loro volta, da raggiungersi partendo da una enucleazione diagnostica.

La transizione assistenziale ha luogo in questo shift cognitivo.

Il nuovo paradigma che avanza già nella sua definizione di “salutogenesi”, di produzione di salute ovunque e da parte di chiunque includendo tutte le politiche in una logica di One Health, richiede un ripensamento di tutti i concetti portanti: a partire dal passaggio da paziente a persona co-produttore di salute.

Ma ancora più interessante per la nostra professione è lo shift che sta compiendo il concetto di salute: da restitutio ad integrum a adattamento e autogestione, aprendo per la professione infermieristica un campo d’intervento inedito.

A patto che superi le proprie criticità interne, a partire dal superare l’ambivalenza cure-care, ma anche la dicotomia oggi ancora imperante nei ruoli di management tra gestionale e professionale creando una sinergia che riporti ordine tra ciò che è mezzo e ciò che è fine.

Il fine non possono che essere i risultati di salute, descrittori dello stato di benessere oltre i dati di prevalenza e incidenza dei più comuni esiti avversi (cadute, lesioni da pressione, infezioni nosocomiali…).

A tal fine non solo i concetti portanti sono da rivedere, ma è necessario anche l’acquisizione di nuove conoscenze, di nuovi modelli assistenziali e anche di un linguaggio comune.

Il nodo delle tassonomie non è una questione secondaria. Dare un nome ad un problema e ritrovare in quel titolo diagnostico una definizione descritta in caratteristiche che ne declinano segni e manifestazione ha un forte potere identificatorio e aggregante. La tassonomia infermieristica NANDA-I, nell’arricchire il quadro dei linguaggi standardizzati, fornendo 267 diagnosi infermieristiche è già diffusa all’interno dei corsi di laurea triennali e in alcune specialistiche a indirizzo clinico, trovando sempre più applicazioni nei contesti organizzativi.

La sua forza è rappresentata dal riuscire a oggettivare il contributo assistenziale con il linguaggio NOC (Nursing outcome classification) a cui ogni diagnosi è correlata, unitamente agli interventi infermieristici (Nursing intervention classification, NIC) in un processo di revisione triennale che segue un rigoroso percorso di verifica e validazione.

Al malato interessano i risultati che nel linguaggio tassonomico sono i NOC. Questi sono il contro-valore che la società chiede e l’ulteriore sfida all’interprofessionalità deve farci riflettere su come portare in evidenza le misure che parametrano il contributo che la professione può portare.

Di utilità al vivere dell’uomo.

Giuliana Morsiani

Infermiere PhD- Ausl di Modena
Membro di NANDA-International



08 marzo 2023
© Riproduzione riservata

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