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Quasi 9 milioni di italiani ricorrono all'infermiere "privato". La spesa sfiora i 3 miliardi, ma un italiano su due paga in nero


05 MAR - Lo scorso anno 8.700.000 italiani hanno fatto ricorso a prestazioni infermieristiche erogate da liberi professionisti e per questo hanno speso di tasca propria, 2,7 miliardi di euro. Ad aver bisogno di un’assistenza che il Ssn non ha garantito sul territorio sono stati il 44,4% dei non autosufficienti (1.400.000 persone), il 30,7% dei malati cronici (2.800.000) e il 25,7% degli ultrasettantenni (2.300.000). La crisi economica spesso spinge le famiglie a risparmiare e quindi per l’assistenza si fa ricorso a figure non strettamente “professionali” come le badanti, ritenute in grado di svolgere prestazioni infermieristiche. A queste figure viene chiesto di gestire le terapie farmacologiche, fare iniezioni, occuparsi di bendaggi e medicamenti. E per risparmiare ulteriormente il 54% degli italiani che hanno pagato di tasca propria un infermiere lo ha fatto in nero: il 45% per l’intera cifra e il 9% in parte.
 
Questi i dati della ricerca del Censis “Infermieri e nuova sanità: opportunità occupazionali e di upgrading. Le prestazioni infermieristiche nella domanda di assistenza sul territorio”, elaborata per la Federazione dei Collegi Ipasvi e presentata oggi in occasione dell’inizio del XVII Congresso nazionale.
 
Rischio inappropriatezza delle prestazioni
In tempo di crisi economica una delle esigenze prioritarie delle famiglie italiane è quella di contenere le spese, quindi una fetta consistente di prestazioni è possibile che siano richieste in nero dai cittadini agli stessi operatori, con in più il rischio che si faccia ricorso a figure professionali non infermieristiche, aumentando in questo modo il fenomeno dell’inappropriatezza delle prestazioni.
 
Il ricorso alla figura non infermieristica
Sempre secondo quanto riferisce l’indagine Censis sono oltre 4.200.000 gli italiani che nel 2014 si sono rivolti a figure non infermieristiche (badanti, familiari, conoscenti, etc.) per avere prestazioni di tipo sanitario per varie ragioni: la fiducia nella persona cui si fa ricorso (42%), il costo eccessivo di un infermiere (33,7%), la convinzione che per alcune prestazioni in realtà l’infermiere non sia indispensabile (31,5%). La maggioranza si dichiara tutto sommato soddisfatta delle prestazioni avute, e giudica gli eventuali danni subiti “residuali”.
Le badanti Tra coloro a cui si è fatto ricorso, le badanti sono una figura emblematica: nelle case in cui lavorano, gestiscono le terapie farmacologiche (88,8%), fanno iniezioni (32,3%), si occupano di eventuali bendaggi e medicamenti (30,4%), intervengono in caso di esigenze sanitarie che di solito richiedono il ricorso a infermieri (20,5%) e gestiscono un catetere (6,2%). Il 51,5% delle persone che impiegano una badante ritengono che la propria badante sia capace di svolgere prestazioni infermieristiche e il 30,6% la considera in grado di intervenire in caso di emergenze sanitarie.
Il 51% degli italiani che ricorre alla badante per prestazioni sanitarie lo fa perché pagare un infermiere in modo continuativo è troppo costoso. Per il 50,9% degli italiani esistono prestazioni semplici (iniezioni o medicazioni), per cui l’infermiere non è indispensabile. Il dato è più elevato tra gli anziani (55,4%), che sono consumatori più intensi di prestazioni infermieristiche.
 
È alta e in crescita la domanda di prestazioni infermieristiche
Dall’indagine Censis emerge anche che esiste una domanda, reale e potenziale, di prestazioni infermieristiche alta e in crescita, e il numero di persone che hanno pagato direttamente di tasca propria è teoricamente ancora molto al di sotto del fabbisogno potenziale di prestazioni sul territorio e a domicilio. Ma nonostante ciò, sono evidenti situazioni di disoccupazione e sottoccupazione di infermieri, che spesso si rivolgono per lavorare a strutture private profit con la conseguenza di ottenere remunerazioni anche molto basse, ma a tariffe tutto sommato elevate per i cittadini.
La colpa di questa situazione è anche del blocco delle assunzioni nel pubblico, che, secondo la ricerca Censis, chiuderebbe molti sbocchi per gli infermieri. “La crisi economica ha danneggiato i cittadini ma anche diversi settori come quello infermieristico, spingendo verso un blocco del turn-over – commenta Carla Collicelli, Vice Direttore Generale del Censis – oggi il mercato è fermo, assunzioni non se ne fanno e i giovani laureati non trovano facilmente sbocchi nel pubblico; d’altra parte l’infermiere si vede prioritariamente come dipendente pubblico e non è particolarmente incline a entrare nel mondo del privato secondo regole precise. Bisognerebbe rafforzare la cultura imprenditoriale quindi: da un lato, le strutture sanitarie pubbliche per prime dovrebbero attivarsi al fine di favorire la continuità assistenziale post-ricovero, dall’altro gli infermieri devono iniziare a far propria l'idea dell'esercizio libero professionale sul territorio che può aprire importanti sbocchi lavorativi e soddisfare la grande domanda”.
 
Infermieri poco propensi all’attività libero professionale
L’attività libero professionale o autonoma è considerata ancora dagli infermieri “una seconda istanza”, se non addirittura un ripiego, una fase di passaggio verso la “vera occupazione” da dipendente, possibilmente nel pubblico. Così, in attesa di sbocchi migliori, tanti infermieri si collocano in posizione subordinata e di debolezza nell’ambito delle prestazioni infermieristiche di territorio, sviluppando un’attività fondata su reti parentali, relazionali e di vicinato, o accettando collocazioni a basso reddito nelle strutture di intermediazione, dalle cooperative alle agenzie di intermediazione. E di debolezza ancora maggiore verso le agenzie (cooperative o imprese) che fanno incontrare la domanda dei cittadini con l’offerta di infermieri. Che la funzione di fare incontrare domanda e offerta sia strategica in questa fase lo testimoniano i dati della ricerca: il 25,4% degli italiani ha difficoltà a trovare un infermiere privato sul territorio in cui vive, molti ricorrono all’intermediazione di reti informali, parenti, amici e conoscenti.
 
“Tre anni fa – commenta Annalisa Silvestro, Presidente della Federazione Ipasvi – avevamo fatto un’indagine che aveva avuto risultati molto interessanti in questo ambito. Ora, l’approfondimento del Censis ha dato risultati di ulteriore interesse. C’è un numero alto di cittadini che ha bisogno di assistenza e si impegna economicamente per ottenerla, rivolgendosi in quota parte agli infermieri. Ma c’è anche chi utilizza un fai-da-te pericoloso, fino alla ricerca di soluzioni su internet, cosa che porta spesso chi la fa a ricorrere poi al pronto soccorso. E c’è una parte che si rivolge a personale non professionale e impreparato (badanti, familiari, conoscenti): anche questo è un gruppo su cui varrebbe la pena di riflettere perché si tratta di persone con tanta disponibilità, ma senza competenze e che per questo può far aumentare il rischio di manovre sbagliate e di impatti avversi per l’assistito”.
 
“Dalla ricerca – prosegue Silvestro – emerge in modo trasversale il concetto dell’aiutiamoci a vicenda, veniamoci incontro che induce a pensare che l’indagine non dia il dato completo del fenomeno, ma che ci sia una sottostima: molti non dicono, ma fanno. E hanno bisogno. E per questo potrebbero nascondere la situazione in cui si trovano, chiedendo ed effettuando un lavoro sotto traccia probabilmente molto diffuso. Dall’indagine Censis emerge anche chiaramente che per l’82% degli intervistati la scelta di affidarsi ad altri soggetti diversi dagli infermieri per alcune prestazioni è legata a questioni economiche (il 51% ritiene che pagare in modo continuativo un infermiere costi troppo e il 31,1% afferma che le badanti costano meno)”.
 
E c’è un’altra evidenza che preoccupa la presidente della Federazione Ipasvi“quella della disinformazione. Il 22% degli intervistati dal Censis infatti afferma che anche le badanti sanno fare certe cose che riguardano l’assistenza o per l’8,6% ci sono interventi che non hanno bisogno di un infermiere anche se formalmente spetterebbero a loro, senza conoscere i rischi a cui si va incontro per prestazioni erogate da chi professionista non è. Ma il dato più macroscopico è quello che riguarda, di fatto, le carenze di assistenza sul territorio. Il 17,6% dei cittadini ha dichiarato di doversi arrangiare con altri perché “gli infermieri non possono coprire orari lunghi nelle abitazioni” e il 10,1% che “non ci sono abbastanza infermieri che vanno a domicilio”: è qui, quindi, che il Servizio sanitario nazionale non c’è più”. 
 
C’è quindi una forte richiesta di assistenza sanitaria che induce a non eludere ulteriormente la questione. “Il modo con cui si sta affrontando il problema – per Silvestro – è fragile: un po’ di soldi per l’accompagnamento, per le badanti che porta a disomogeneità e a forti carenze di assistenza sul territorio. L’aspetto economico per avere un’assistenza sanitaria professionale e di qualità è importante, certo, e ci si deve muovere per dare a tutti la possibilità di utilizzare per le prestazioni sanitarie infermieri. Non si può allineare verso il basso l’assistenza o aumenterà l’afflusso al pronto soccorso per far fronte a interventi incompetenti o sbagliati di persone non preparate che oltretutto non sanno davvero come si fa assistenza”.
 
Dunque che fare? “Come infermieri – conclude Silvestro – intendiamo chiedere alla politica che si pensi a proposte di legge che defiscalizzino le prestazioni assistenziali sanitarie se infermieri; alle Aziende sanitarie che inseriscano e mantengano strutturalmente nel territorio infermieri educatori per informare, educare ed addestrare i familiari o i loro sostituti ad un accudimento informato, corretto e sicuro dei loro cari. In questo modo si potrà sostenere concretamente e rapidamente le tante famiglie italiane in difficoltà”. 

05 marzo 2015
© Riproduzione riservata
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