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Infezioni correlate all’assistenza, un’urgenza clinica e medico-legale. Una prevenzione vera è possibile? Intervista al prof. Andreoni e al prof. La Russa

di Gloria Frezza

Le ICA sono responsabili da sole del 30% dei casi di contenzioso medico-legale. I fattori di rischio sono legati all’ambiente, al fattore umano e alle fragilità dei pazienti. Aggravate, inoltre, dall’avanzare dell’antibiotico resistenza tra le pareti ospedaliere. Quanto e cosa possiamo fare?

01 DIC -

Le infezioni correlate all’assistenza (ICA) sono una problematica da cui nessun ospedale o struttura sanitaria di sorta è immune. Fanno parte di quelle complicazioni la cui prevenibilità è quasi impossibile da ottenere in toto e sono, ad oggi, uno dei maggiori costi per le strutture in termini di contenzioso medico-legale. Proprio per questo la Commissione nazionale per la formazione continua in Medicina ha deciso di inserirle tra le quattro tematiche “di interesse nazionale”, mostrando una chiara determinazione a formare i professionisti sanitari verso situazioni di rischio ridotte.

Ridotte ma non azzerate, in quanto “una prevenzione assoluta non è possibile”; come ci spiega il prof. Massimo Andreoni, ordinario di Malattie Infettive all’Università di Roma Tor Vergata e docente del corso “Lotta alle infezioni correlate all'assistenza: strategie efficaci e responsabilità professionale” per il provider Sanità InFormazione.

Questo, in primis per via dei fattori di rischio, troppo variabili e situazionali per essere effettivamente controllati. “Esistono dei fattori ambientali non trascurabili: l’igiene e la sanificazione degli ambienti – spiega – non sempre scrupolosa porta alla distribuzione di germi nell’ambiente di cura. Che si unisce ai fattori umani: il mancato uso corretto dei dispositivi di protezione individuale da parte dei sanitari o il mancato lavaggi delle mani. Ancora, i tanti strumenti che usiamo per le pratiche chirurgiche e mediche (come i cateteri) che, se non igienizzati a dovere, possono introdurre nel corpo infezioni. Ancora, il maluso e l’abuso degli antibiotici è determinante, in quanto aumenta l’antibiotico resistenza dei ceppi batterici che con sempre più difficoltà vengono curati. Infine, le comorbilità dei pazienti e l’immunodeficienza che sono fragilità inevitabili che rendono la prevenzione totale delle ICA molto difficile”.

Eliminando tutti i fattori contingenti, secondo il prof. Andreoni, le ICA che possono essere impedite e contrastate sono tra il 30 e il 40% del totale. “Quello che c’è da fare – prosegue – è molta formazione per le persone, perché tutti devono sapere come comportarsi e poi i controlli che vanno messi in atto. Formare vuol dire anche constatare quale è stato l’effetto della formazione, se è riuscita ad inculcare quelli che sono i giusti comportamenti e fare quelle azioni riparative laddove non venga fatto”.

Le ICA sono anche un’urgenza medico-legale, come ci spiega il prof. Raffaele La Russa, associato di Medicina Legale all’Università dell’Aquila e anche lui referente per la parte legale nel corso di formazione già citato. “Negli ultimi 5 anni abbiamo avuto un assedio di richieste di risarcimento danni e giudizi civili contro le strutture sanitarie per l’insorgenza di ICA”, spiega. Questo perché, prosegue, in una prima fase la magistratura e il medico legale hanno evidenziato l’insorgenza di un’ICA senza dare anche delle informazioni utili al giudice, “quali le attività correlate alla prevenzione che invece era necessario che venissero palesate nelle consulenze e quindi avessero poi dei riflessi giuridici nelle sentenze stesse”.

“Ciò ha provocato una serie di sentenze anche catastrofali come importo, che ha visto in difficoltà serie le strutture sanitarie – conferma La Russa –. Recentemente la giurisprudenza ha attenuato il grado di colpa nei confronti della struttura sanitaria, perché ha individuato un quesito più preciso dato al Consulente tecnico d’ufficio (CTU) che deve adesso non solo certificare che sia una ICA ma deve anche andare a esprimersi in merito alle procedure, alle misure di prevenzione, ai corsi di formazione, dando la possibilità alla struttura di difendersi in quanto quella contratta è una infezione prevedibile ma non prevenibile. Ciò che differenzia una infezione risarcibile da una che non deve essere risarcita”.

I costi delle ICA hanno toccato decine di milioni di euro ogni anno per le strutture complesse e con volumi importanti. “In uno studio di qualche anno fa – spiega La Russa – con diversi policlinici universitari abbiamo stimato che rispetto al totale delle richieste di risarcimento danni che giungevano negli istituti sanitari, circa il 10% riguardavano ICA. Ma, andando a percentualizzare la mole di risarcimenti sborsati dalle aziende, questa percentuale saliva a oltre il 30%. Questo perché solitamente le infezioni denunciate non sono quelle tenui che passano, ma quelle che poi si aggravano con un quadro settico che porta fino al decesso del paziente”. A questo vanno aggiunti i “costi vivi”, tra cui l’aumento della degenza del paziente e l’uso di terapie antibiotiche più costose perché siano efficaci.

Ad oggi, di antibiotico resistenza muoiono 11 mila persone all’anno. Nel 2050 questo numero potrebbe salire a 10 milioni, portandola a diventare la prima causa di morte al mondo. L’abuso, su vari livelli, porta gli antibiotici nell’ambiente e negli animali di cui ci nutriamo, autoalimentando una resistenza dei germi che è normale in natura. “Contrastare l’antibiotico resistenza – spiega il prof. Andreoni – passa attraverso più passaggi. Quello che si può fare di certo è investire sulla formazione e la specializzazione di chi lavora ad alto rischio ICA; nonché investire sulla ricerca di nuovi antibiotici, che è tra le più dispendiose per le aziende farmaceutiche”.

Gloria Frezza



01 dicembre 2023
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