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“Meglio ricercati che ricercatori”. La realtà del dottorato di ricerca

di A. Rossi e F. Ursini

Gli aspiranti ricercatori in Italia si trovano ad operare in condizioni di partenza svantaggiose ma ottengono risultati migliori della maggior parte dei loro colleghi Europei. Il riconoscimento a livello di giuridico, previdenziale ed economico del dottorando potrebbe attirare un maggior numero di giovani verso il mondo della Ricerca Medica

22 GEN - Sono circa 12.000 i dottorandi di ricerca in Italia, giovani professionisti che hanno deciso di dedicare la propria vita alla ricerca, di cui il 24 per cento oltre i 30 anni: tra di essi, numerosi medici, specialisti e non. Il dottorato di ricerca è il naturale percorso per coloro che, prima o dopo aver conseguito la specializzazione medica, vogliano intraprendere la carriera scientifica. Introdotto in Italia con la legge 28/1980, rappresenta il massimo livello raggiungibile della formazione accademica. Ad esso si accede tramite concorso pubblico, emanato annualmente dalle singole Università, che mettono a bando posti con e senza borsa di studio. Tuttavia, sia gli iscritti con borsa che quelli senza borsa sono tenuti al pagamento di tasse annuali, che possono talvolta raggiungere i 2.000 euro.

Nel 2013 è stata data attuazione alla riforma del dottorato di ricerca prevista dalla legge 240/2010 (Riforma Gelmini) con la pubblicazione del decreto ministeriale 8 febbraio 2013, n. 45. Tale riforma prevede criteri più stringenti per l’accreditamento dei corsi di dottorato, che ha generato una contrazione del numero dei corsi a 919 nell’anno accademico 2013/2014, primo anno di entrata in vigore della nuova normativa, contro i 2.100 - 2.200 di media dell’ultimo decennio. Tale modifica ha comportato una riduzione del numero complessivo di posti (12.300 di cui 55-57% con borsa di studio) che avevano comunque visto una riduzione nel corso degli anni precedenti. Tale contrazione, ha avuto un peso maggiore nelle Università del Mezzogiorno.

Come il medico in formazione specialistica, anche il dottorando di ricerca vive nella zona grigia a cavallo tra studente e lavoratore. Infatti, sebbene la Carta Europea dei Ricercatori, adottata anche dalle Università italiane a partire dal 2008, stabilisca che la figura del dottorando debba essere considerata come lavoratore, ovvero ricercatore in formazione, l’Italia insiste, anche negli ultimi provvedimenti, a considerarlo alla stregua di un master universitario, svalutandolo e non riconoscendo implicitamente la premialità che un dottorando ha nel superare un concorso pubblico per accedere a tale percorso e svilendo di fatto l’attività di ricerca e di didattica svolti nei tre anni.

Un timido tentativo da parte del MIUR di riconoscere lo status di lavoratore ai dottorandi era contenuto in una prima bozza del provvedimento che sarebbe diventato il D.M. 45/2013 (versione 27 settembre 2011, art. 8 co. 1), nel quale si faceva riferimento ai dottorandi come early stage researchers, ma purtroppo tale dicitura è scomparsa dalla versione definitiva.
Ma non è quella dello status giuridico l’unica differenza con gli altri paesi europei: secondo i dati Eurostat 2010 l’Italia è il 4° paese europeo per numero di dottorati; tuttavia, considerando il rapporto numero di dottorandi per 1000 abitanti è fanalino di coda con uno score pari a 0,6. Anche per quanto riguarda l’importo medio della borsa di studio le cose non cambiano: l’importo delle borse italiane (1035 euro mensili al netto degli oneri previdenziali, da cui vanno sottratte le tasse di iscrizione) appare decisamente inferiore all’importo delle borse/stipendi medi percepiti dai colleghi europei, con la sola eccezione dell’Est Europa.

Gli aspiranti ricercatori in Italia si trovano quindi ad operare in condizioni di partenza nettamente svantaggiose, ma nonostante questo ottengono risultati migliori della maggior parte dei loro colleghi Europei. La ricerca medica italiana, svolta secondo dati ANVUR 2013 per il 51% da precari e spesso tacciata di scarsa competitività anche negli stessi ambienti ministeriali, resiste miracolosamente ai primi posti nel mondo per qualità della produzione, in scia ai paesi cosiddetti “virtuosi” Germania e Francia, rendendoci protagonisti dell’ennesimo ”italian paradox”, pochi fondi e tanta ricerca di buona qualità. Troppo spesso tuttavia i giovani aspiranti ricercatori italiani sono costretti ad emigrare o a prendere altre strade di fronte alla precarietà cui tale provvedimento li condannava in Italia. La fuga di cervelli in Italia è impietosamente fotografata dai numeri relativi ai vincitori dei Consolidator Grantees dell’ERC destinati ai mid-career top researchers. Ricercatori italiani si sono infatti aggiudicati 46 grant su un totale di 312, con un risultato inferiore alla sola Germania, prima della classe con 2 grant in più. Tuttavia solo 20 grant verranno spesi in Italia, mentre i restanti 26, corrispondenti a 48 milioni di euro saranno destinati a progetti di ricerca di ricercatori italiani scappati all’estero, col risultato di arricchire il sistema ricerca ed economico altrui.

Prima della legge 240/2010, la famigerata riforma Gelmini, al termine del dottorato si poteva aspirare alla stabilità, ottenendo la posizione di ricercatore a tempo indeterminato. Attualmente invece, ad un massimo di 4 anni di assegno di ricerca fanno seguito, nella migliore delle ipotesi, 5 anni da ricercatore a tempo determinato tipo “A”, propedeutici ad altri 3 anni come ricercatore a tempo determinato di tipo “B”. Tale qualifica dovrebbe essere agganciata teoricamente alla tanto agognata posizione da professore associato, ma dati elaborati dall’Associazione Dottorandi e Dottori di ricerca Italiani (ADI) ha stimato che nel 2013 sono state finanziate solamente 520 posizioni per ricercatori tipo “A” e 130 posizioni per ricercatori di tipo “B”, a fronte della necessità di 1700 e 1300 posizioni stimate dal Consiglio Universitario Nazionale per mantenere in sicurezza il sistema accademico, con conseguente rischio di espulsione dal sistema didattico dell’86.4% di chi intraprende questo percorso.

Quindi un medico specialista di 30 anni dopo un massimo di 15 anni da precario rischia di ritrovarsi senza impiego a 45 anni, età non certo ottimale per riciclarsi come medico ospedaliero o sul territorio, senza contare che durante questi 15 anni lo stipendio conseguito sarà stato nettamente inferiore rispetto a quello di un medico strutturato al primo incarico.
Se le cifre relative ai corsi di dottorato in Italia non dovessero apparire sufficientemente desolanti, ad aggravare la situazione vi è il risvolto pratico che, complice una normativa fumosa e permissiva, ha creato di fatto un esercito di professionisti sottopagati da impiegare in contesti non solo accademici, ma anche clinici, in particolare in periodo di tagli lineari e turnover azzerato.

Per quanto riguarda il profilo assistenziale, al giovane medico fresco di specializzazione, a volte senza alcuna velleità di carriera accademica, nel contesto di un mercato del lavoro paralizzato, viene offerto una borsa di dottorato di ricerca come mero “ammortizzatore sociale”. Di fatto, egli viene assorbito da Unità Operative sotto forma di dirigente medico “junior”, partecipando alle attività assistenziali del reparto, comprese la turnazione notturna e festiva. Per tutta la durata del dottorato egli non avrà riconosciuto nessun diritto, né produrrà contributi previdenziali oltre la gestione separata INPS. Questo poiché, sulla base di accordi locali, e come previsto dal DM 45 del febbraio 2013 i dottorandi che frequentano corsi di dottorato ad impronta clinica, possono partecipare all’attività clinico-assistenziale senza indennità aggiuntive.
Per il reclutamento di nuovi ricercatori in ambito medico ci troviamo quindi di fronte ad un chiaro problema di appeal, legato all’eccessiva frammentazione e precarizzazione delle figure pre-ruolo introdotte dalla riforma Gelmini e alle scarse opportunità lavorative legate al conseguimento del titolo.

Il riconoscimento a livello di giuridico, previdenziale ed economico del dottorando quale lavoratore e provvedimenti volti alla valorizzazione del titolo al di fuori del contesto accademico, nell’insegnamento scolastico, nelle pubbliche amministrazioni e nel sistema produttivo, potrebbero essere la chiave per attirare un maggior numero di giovani verso il mondo della Ricerca Medica e per favorire il raggiungimento di risultati di alto livello, indispensabili per la crescita economica e culturale dei singoli Paesi.

Andrea Rossi
Responsabile Anaao Giovani Regione Veneto
 
Francesco Ursini
Coordinatore Anaao Giovani Macro Regione Sud 

22 gennaio 2015
© Riproduzione riservata

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