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Sangue infetto: la prescrizione dei danni decorre dall’indicazione del medico al paziente. La Cassazione accoglie ricorso di una paziente


Il termine di prescrizione per chiedere i danni da sangue infetto decorre dall’indicazione del medico al paziente. Secondo la Cassazione (ordinanza 24164/2019) non basta la sola diagnosi di epatite per consentire a una persona non esperta di collegare la malattia con la trasfusione subita anni prima. LA SENTENZA.

30 SET - Il termine di prescrizione per chiedere i danni da sangue infetto decorre dall’indicazione del medico al paziente. Non basta la diagnosi di epatite per consentire a una persona non esperta di collegare la malattia con la trasfusione subita anni prima.

Lo ha deciso la Cassazione con l’ordinanza 24164/2019 ribaltando una sentenza della Corte di Appello.

Il fatto
Nel 1978 la madre delle ricorrenti era stata sottoposta a un'unica trasfusione a seguito di una gravidanza extrauterina. Sottoposta ad esami per un ittero, nel 1990 scopriva di essere positiva al virus HCV ma, in mancanza di altri elementi che potessero ricondurre il contagio all'unica trasfusione, solo nel 1999, dopo gli allarmi lanciati sulla stampa per il propagarsi di casi di contagio di HCV da trasfusioni, ha presentato domanda alla Commissione Medico Ospedaliera per ottenere l’'indennizzo previsto dalla legge n. 210 del 1992, e nel 2002 ha chiesto il risarcimento dei danni prima alla Asl, e successivamente, nel 2003, estendendo la domanda di responsabilità extracontrattuale nei confronti del Ministero della Salute.

Il giudizio ha cambiato numerose sedi di competenza e si è interrotto per morte della paziente, ma è stato proseguito dalle figlie.

La decisione di primo grado è arrivata nel 2013 con l'accoglimento della domanda di risarcimento per oltre 300.000 euro e il tribunale rigettava l'eccezione di prescrizione del Ministero facendo decorrere la prescrizione dalla presentazione della domanda amministrativa prevista dalla legge n. 210 del 1992.

Ma la Corte d'Appello ha poi ritenuto la domanda prescritta, collegando il decorso della prescrizione dalla data diversa e antecedente del 1991, di conoscenza del referto di laboratorio.

Le figlie della paziente hanno deciso di ricorrere in Cassazione.

L’ordinanza
Secondo la Cassazione Il ricorso è fondato, in quanto la Corte di Appello si è “discostata, senza una convincente motivazione in ordine alla preferibilità di una diversa soluzione, all'orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità in tema di exordium praescriptionis che non può essere fatto decorrere da un momento antecedente a quello in cui possa ritenersi conseguita, o conseguibile con l'ordinaria diligenza in capo alla vittima, la riconducibilità causale della malattia alla sua causa scatenante, e quindi ai possibili responsabili”.

La Cassazione ricorda un principio espresso dalla stessa Corte nel 2018 secondo cui "il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto per contagio da emotrasfusioni una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre dal giorno in cui tale malattia venga percepita - o possa essere percepita usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche - quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo. Incorre, pertanto, in un errore di sussunzione e, dunque, nella falsa applicazione dell'art. 2935 c.c, il giudice di merito che, ai fini della determinazione della decorrenza del termine di prescrizione, ritenga tale conoscenza conseguita o, comunque, conseguibile, da parte del paziente, pur in difetto di informazioni idonee a consentirgli di collegare causalmente la propria patologia alla trasfusione”.

Secondo la Cassazione “nulla è dato sapere dalla sentenza impugnata, una volta comunicata la diagnosi, riguardo alla percepibilità da parte della paziente della ascrivibilità della malattia diagnosticatale alla trasfusione”.

Per i giudici questo sarebbe stato possibile solo se fossero state fornite nel referto informazioni che avessero consentito all'interessata il collegamento con la causa della patologia o se fosse stata posta in condizione di assumere tali conoscenze.

“In mancanza di queste informazioni – si legge nell’ordinanza - ha errato in iure la Corte territoriale a desumere dal dato dell'anamnesi l'acquisizione da parte della vittima della consapevolezza”.

La Cassazione afferma quindi che “va quindi ribadito che la consapevolezza idonea a far decorrere il termine di prescrizione è da apprezzarsi tenendo conto che per il quivis de populo il naturale mediatore della conoscibilità della riconducibilità, allorquando non si dimostri una sua particolare attitudine ad acquisirla, non può che essere l'indicazione del medico e pertanto di norma, deve ritenersi che occorra che il collegamento sia frutto di tale specifica indicazione”.

La Corte accoglie quindi il ricorso, cassa la sentenza della Corte di Appello e rinvia il tutto a questa, in diversa composizione anche per le spese del giudizio.

30 settembre 2019
© Riproduzione riservata

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