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Essere infermiere, oggi

di Daniela Berardinelli

28 OTT -

Gentile Direttore,
chi fa questo mestiere scopre, fin dal primo momento in cui indossa una divisa quanto possa essere dura, ma al contempo gratificante o esaltante una corsia e le storie di vita e malattia che la abitano. La capostipite degli infermieri, Florence Nightingale, definiva questo lavoro “la più bella tra le arti belle” proprio per la vicinanza e l’unicità del rapporto di cura che si viene ad instaurare tra il paziente e l’infermiere che lo assiste.

Come professionisti della salute abbiamo vissuto per anni un retaggio culturale difficile da superare, dove l’infermiere era visto esclusivamente come figura di supporto al medico e con funzioni di bassa complessità ma elevata utilità, come le attività legate al rifacimento letti, alla vestizione e pulizia della persona. L’avvento della pandemia sembrava aver aperto uno spiraglio. Fino a poco più di un anno fa gli infermieri erano definiti eroi della salute pubblica e portati in palmo di mano, almeno apparentemente. Un cambio così repentino nella percezione sociale può essere però effimero, in particolare se confrontato con il passato.

Il riconoscimento sociale dell’infermiere è stato a lungo scadente. Nonostante l’infermiere goda di un’autonomia professionale legalmente dichiarata e riconosciuta da anni, questo aspetto è largamente ignorato. In Italia sono attivi 42 Corsi di Laurea in Infermieristica, dislocati su 217 sedi con migliaia di studenti. Al momento però gli studenti possono contare solo su 42 infermieri docenti di ruolo (dati aggiornati a maggio 2021). In sostanza, ad oggi, c’è un professore infermiere per ogni 1.350 futuri infermieri. Sarebbe possibile immaginare la stessa cosa per i corsi di ingegneria? Molti corsi dipendono quindi da docenti provenienti da altre professioni sanitarie, soprattutto mediche. C’è una debolezza nell’ambito della ricerca scientifica di settore, che fatica a divenire patrimonio collettivo della professione. C’è bisogno di più teste che se ne occupino a tempo pieno, a partire dai dottorandi.

Le attuali società scientifiche sono ancora in una fase di maturazione e non godono di grande visibilità.

Gli infermieri in corsia sono esasperati, la formazione non cresce, la ricerca arranca. Ad inizio anno la Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche (FNOPI), che rappresenta 465 mila infermieri italiani, aveva lanciato un grido d’allarme, rivolto a Governo, Parlamento e Regioni. La denuncia era forte e chiara: “Così muore una professione”.

Un ultimatum rivolto alle istituzioni che sembrano continuare ad ignorare le scarse condizioni che ancora caratterizzano la professione infermieristica. Poca crescita professionale, pochi posti dirigenziali: il settore del coordinamento dei reparti (vecchio caposala) e del management delle organizzazioni sanitarie (strutture dirigenziali infermieristiche) conta posti estremamente limitati.

Un altro problema angusto è quello remunerativo. Se il riconoscimento sociale passa anche attraverso quello economico allora sono guai. Questa classe di professionisti della salute guadagna troppo poco (in media circa 1500 euro netti al mese). Come possiamo suscitare interesse per le nuove generazioni? La fuga verso orizzonti più qualificati, riconosciuti e remunerati è la scelta intrapresa da molti colleghi che, formati ad hoc nel nostro paese (spesso molto più che in altri), scelgono territori di cura esteri dove si viene valorizzati, senza doverlo agognare.

Il sistema sanitario, in evidente sofferenza prima del COVID, ora prova a leccarsi le ferite con alcune assunzioni, che non sempre esitano in contratti a tempo indeterminato e depauperano realtà più piccole o private, come le RSA che rimangono sguarnite di personale in fuga verso il tanto bramato “posto pubblico”. Quest’anno sono stati messi a bando 19375 posti per infermieristica nelle università italiane. È la prima volta che si arriva a questa cifra, con un aumento dell’11,4% rispetto al 2021 e un trend in crescita negli ultimi 5 anni, di oltre il 30%. Le domande pervenute sono state oltre 25.000. Nonostante questi rattoppi in Italia continuano a mancare 65.000 infermieri. Non è solo con l’aumento dei posti disponibili negli atenei che si risolve il problema della carenza.

Rimane la speranza che la pandemia abbia portato alla luce il campo d’azione dell’infermiere e le sue attività cliniche, che partono dalla valutazione dei fabbisogni essenziali del paziente fino alla gestione di terapie complesse, come quelle delle terapie intensive. È tempo di far emergere la complessità e la poliedricità proprie di questa figura come una ricchezza. Le aziende sanitarie e il territorio devono investire nel riconoscimento e nel benessere di questo professionista, costruendo dei percorsi di crescita professionale più articolati, che mantengano alta la motivazione e permettano maggiori riconoscimenti economici.

Daniela Berardinelli

Infermiera, docente di infermieristica e giornalista



28 ottobre 2022
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