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Attenzione a non spostare il ruolo dei servizi di salute mentale su un piano di psico-estetica

di Federico Durbano

19 DIC -

Gentile direttore,
colgo lo spunto e la proposta lanciati dalla lettera del dott. Ventura per fare alcune considerazioni generali sulla salute mentale, su quello che i servizi (pubblici) possono e/o debbono offrire e sul ruolo delle società scientifiche. Tali considerazioni sono di necessità sintetiche, quasi aforismatiche, ma secondo me necessarie a dare un utile parametro di riferimento per qualsiasi riflessione.

Prima considerazione. Stiamo vivendo in un periodo socioculturale che rifiuta i termini netti. La parola malattia fa paura? Allora parliamo di un non definito disagio, parola assolutamente priva di significato clinico. Il disagio è quell’aspetto reattivo che un organismo sano mette in campo quando si confronta con la necessità di un cambiamento. Attribuire valore eziopatogenetico, patoplastico, al disagio significa invalidare la persona che ha il disagio invece che riconoscerne la libertà di reazione adattativa e quindi una dignità di normalità. Tra disagio e disturbo, e tra disturbo e malattia ci sono le stesse differenze che ci sono tra consumazione eccessiva di alcolici, ubriachezza e alcolismo. Sono 3 diverse fattispecie che hanno ricadute funzionali (bio-psico-sociali) ben differenti, sia in termini attuali che prognostici. Considerare un soggetto che ha un “disagio” come passibile di cure è concetto da stigmatizzare. Ma oggi si parla anche di “disagio abitativo” per indicare quei nuclei familiari che, oggettivamente, sono senza casa. Forse bisognerebbe fare una seria consensus per perimetrare i termini di riferimento, in modo da costruire validi indicatori su cui costruire progetti di intervento modulati correttamente.


Seconda considerazione. Curare il disagio è impresa titanica, se vogliamo risolvere tutte le risposte adattative che le asperità della vita ci richiedono. Il disagio è una leva evolutiva, è la messa a prova delle risorse individuali e richiede al soggetto uno sforzo (sano e normale) di adattamento che prevede di attingere alle proprie risorse per ridefinire i propri comportamenti. Patologizzare questo percorso, a mio parere, è molto pericoloso per l’equilibrio e l’identità del Sé.

Terza considerazione. Se nel disagio assumiamo anche il concetto di devianza, allora ampliamo talmente la platea di tutti coloro che dovrebbero accedere a qualche intervento in salute mentale da rendere la definizione di malattia assolutamente inutile. Ma la malattia, per definizione, pur riconoscendone le determinanti sociali, deve avere un percorso eziologico e uno sviluppo patogenetico. Queste sono le basi del prefisso bio- del citato modello engeliano. Rifiutare o ridurre di importanza l’aspetto bio- significa negare l’esistenza del concetto di malattia. L’aspetto bio- è quella componente di vulnus che determina di fatto una cristallizzazione delle possibilità di adattabilità dell’organismo, riducendone le libertà di scelta adattativa e imponendo a chi ne è affetto un solo percorso (disadattativo) vincolato. E la componente bio- va aggredita con le metodiche che la scienza medica ha sviluppato nella sua evoluzione.

Quarta considerazione. Il ruolo delle società scientifiche è proprio quello di fare scienza, ovvero di sostenere lo sviluppo dell’evoluzione scientifica della disciplina (nel nostro caso, quello stigmatizzato dal collega Ventura, della psichiatria). Che il presidente di una società scientifica parli di componenti biologiche non mi pare un fatto che induca a gridare allo scandalo: la psichiatria moderna, pur non negando in alcun modo valore al modello engeliano (nei nostri congressi tutte le componenti di tale modello sono sempre affrontate con impegno e serietà, ma anche con galileiano spirito di cimento), non può non sottolineare gli indiscutibili ed enormi progressi che le neuroscienze hanno fatto e stanno facendo nel comprendere prima di tutto i determinanti biologici delle malattie mentali, da cui fare discendere anche importanti considerazioni sul funzionamento normale del nostro sistema nervoso centrale e quindi utili anche a comprendere i meccanismi sottostanti al disagio utili a sviluppare strategie psico-socio-educative utili a rinforzare i normali meccanismi di adattamento.

Potrei andare avanti a lungo, ma penso che alcune considerazioni finali provvisorie possano essere proposte. Gli interventi dei servizi di salute mentale, sostenuti dall’evoluzione del pensiero scientifico di cui le società scientifiche sono garanti, sono dedicati alla malattia in primis, ma si stanno tutti orientando anche agli aspetti di prevenzione per intercettare quella quota minoritaria in cui il disagio è spia di qualcosa di altro. Pensare che tutto il disagio debba essere oggetto di un intervento specifico sposterebbe il ruolo dei servizi di salute mentale su un piano di psico-estetica non sostenibile né condivisibile alla luce della mission di un servizio sanitario moderno, oltre che determinerebbe una diminutio del valore della persona portatrice di disagio, che diverrebbe oggetto passivo di un atteggiamento paternalistico-protezionistico da rifiutare. E ancora una volta il ruolo dei Dipartimenti di Salute Mentale deve essere e rimanere quello di regia di tutti gli interventi legati alla salute mentale, per evitare pericolose derive. Così come il ruolo delle società scientifiche deve essere e rimanere quello dei garanti della corretta applicazione del metodo scientifico nell’analisi dei problemi e nello sviluppo di risposte.

Risposte che, nell’attuale contesto economico ed organizzativo (componente sociale), devono tenere conto dell’allocazione etica delle risorse. Altro tema che sulle colonne di questo giornale è stato affrontato sotto numerose angolature.

Dott. Federico Durbano
Direttore DSMD ASST Melegnano e della Martesana
Consigliere Società Italiana di Psichiatria – sezione Lombarda
Consigliere Società Italiana di Psichiatria Forense
Board del Coordinamento dei Direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale Italiani



19 dicembre 2023
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