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Reati e malattia mentale, quante contraddizioni  

di Andrea Angelozzi

26 FEB - Gentile Direttore,
sto leggendo con interesse il dibattito relativo al ruolo della psichiatria nella gestione degli autori di reato per malattia mentale. A mio parere nel pensiero giuridico e psichiatrico attuale emergono alcune importanti incoerenze che proverò a chiarire, amplificandole con la particolarità di ipotetiche situazioni, un po’ come avviene con gli esperimenti di pensiero cari alla filosofia del mentale.

Le infermità che portano alla non imputabilità sono quelle che ledono la capacità di intendere e volere, e la loro natura non si riferisce solo alle infermità mentali psichiatriche, unico oggetto della legge 81/2014, che mescola misura di sicurezza e terapia, affidando il tutto alla psichiatria. La infermità che conduce al reato, a cui fanno riferimento gli art. 88 ed 89 del CP, può legarsi infatti anche a patologie di natura diversa, legate a condizioni palesemente organiche.

Possiamo ipotizzare reati indotti da demenza o insufficienza mentale che potrebbero comunque suggerire a giudici e periti una collocazione in Rems (tentativi in questo senso non mancano), svelando quindi che non si cerca una impossibile cura, ma solo la custodia; ma possiamo immaginare situazioni indotte da aspetti confusivi, legati a patologie neurologiche oppure metaboliche. Del tutto fuori luogo in una Rems, dubito che in questi casi il paziente verrebbe collocato con misura di sicurezza in reparti specifici gestiti da neurologi o internisti con obbligo di custodia e posizione di garanzia del sanitario. E non certo perché manca la pericolosità e sono eventi occasionali: da una parte neppure il reo folle passa le sue giornate a compiere delitti, e dall’altra anche questi pazienti organici, se non si curano, sono a rischio di altri reati, non offrendo peraltro maggiore garanzia di compliance all’eventuale prescrizione di cura domiciliare rispetto ai pazienti psichiatrici.

Il cosiddetto doppio binario delle conseguenze del reato, per cui al criminale viene irrogata una pena mentre per il socialmente pericoloso per patologia viene predisposta la cura all’interno della misura di sicurezza, è nella realtà una vicenda esclusivamente psichiatrica, dando a questi pazienti, ed ai loro curanti, uno status diverso da tutto il resto.

La timida obiezione che le collocazioni in Rems e l’affidare misure sociali alla psichiatria possano meglio rispondere per questi pazienti ad una esigenza di cura, trovano altre contraddizioni, nella prassi e nella teoria scientifica. Alla fine si impone al paziente (ed al terapeuta) di trascorrere la misura di sicurezza in una struttura sanitaria, senza che questo possa tradursi in effetti in un obbligo di cure, non solo perché non esistono Trattamenti Sanitari Obbligatori che durano anni, ma anche perché di fatto nelle Rems non possono proprio essere fatti TSO. In maniera analoga al carcere rimane solo l’obbligo di starci.

Alla fine manca una qualunque base scientifica che legittimi queste strutture e comunque trattamenti a lunga scadenza imposti per legge ai pazienti, così come non mi risulta esista alcun lavoro scientifico che dica che il trattamento di una patologia psichiatrica grave in una struttura comunitaria sia più efficace di un trattamento in altre sedi.

Ma soprattutto non esiste alcuna garanzia di un risultato soddisfacente per molte patologie psichiatriche e molti pazienti, e stiamo parlando di pazienti che chiedono un trattamento, figurarsi quelli a cui viene imposto. Ed in ogni caso la cura ed i suoi tempi non appartengono infatti né alla psicologia popolare né alla giurisprudenza, ma ad un fare clinica dove la collaborazione con il paziente è parte determinante.

Ma allora perché le Rems? Perché l’affidamento alla psichiatria del duplice compito di controllo dei comportamenti antisociali e della terapia? I motivi sono tanti e vanno ricercati in primo luogo nelle fantasie della psicologia popolare che chiede comunque la custodia del matto, identifica patologia con pericolosità, e fantastica in modo romantico che tutto sia curabile ed in qualunque modo. È lo stesso principio per cui ai servizi psichiatrici si tendono ad affidare le cose più disparate e disperate in merito di sragione sociale, che nulla hanno a che fare con la clinica.

Ma soprattutto hanno un ruolo le contraddizioni della psichiatria, dove molti hanno accolto con favore la legge 81/2014, pensando che la chiusura degli OPG potesse realizzare il superamento della istituzione e dello stigma con una presa in carico nei Dipartimenti di Salute Mentale anche di questi pazienti, dimenticando la lezione di Goffman che quando ci si prende in carico di tutto (dal barbiere, alle conseguenze legali, alle attività quotidiane, alla terapia alle relazioni interpersonali ) in un unico luogo, si ha solo una riedizione del manicomio e dello stigma.

Infine non vanno dimenticate le necessità della politica, che inizia il percorso della legge 81/2014 ancora con il D.L. 211/2011, legato al sovraffollamento carcerario e la necessità di spostare i pazienti autori di reato dalle carceri a strutture sanitarie, evitando i troppi detenuti e le sanzioni europee. E questo ci fa pensare quanto sia improbabile che il mondo sanitario possa restituire alla giustizia le competenze non proprie.

Questo universo, poco legato alla giustizia e nulla alla scienza, continua poi con i pressapochismi della psicologia popolare a cui sono molto sensibili i periti quando facilmente sopravvalutano il ruolo della patologia nel reato e confondono avere una patologia con commettere reati. Spetta ai periti rendersi conto che le personalità antisociali non risultano suscettibili di trattamento farmacologico né psicoterapico (che pare anzi avere aspetti peggiorativi), che la psichiatria passa il tempo a inventare nuove diagnosi credendole oggetti naturali e che averne una per una sfortunata storia personale esoneri da quella responsabilità che uno che delinque per infiniti aspetti personali, sociali o familiari deve invece prendersi tutta.

Allora il problema non è in questo caso aumentare le risorse o i posti in Rems: qui la questione è molto più radicale e riguarda quale sia il ruolo della psichiatria e se possa mai liberarsi dei compiti di controllo sociale e dei comportamenti “anomali” che da secoli si trascina dietro.

Alla fine il primo passo da fare per un chiarimento sul ruolo e la organizzazione della identità della psichiatria e per riaffrontare il problema della organizzazione della salute mentale è puntare sull’abolizione della Legge 81/2014.

Andrea Angelozzi
Psichiatra

26 febbraio 2024
© Riproduzione riservata

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