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È “anti-psichiatrica” la psichiatria che “colloca” e obbliga

di Enrico Di Croce e Stefano Naim

07 MAR - Gentile Direttore,
da un anno e mezzo Rowan, ragazzo minorenne, vaga fra reparti psichiatrici, comunità per minori (terapeutiche, educative, di pronta accoglienza) e brevi rientri a casa. Progetti di cura tutti conclusi in modo burrascoso, fra botte, fughe, corse di carabinieri, sedativi, ambulanze. Adesso è di nuovo in Spdc (reparto psichiatrico per adulti) in vista della prossima “collocazione”.

Rowan sta troppo male per tornare a casa. Ma ha 17 anni e mezzo, l'età peggiore per la “burocrazia sanitaria”. E’ ancora minorenne, non può andare nelle strutture per adulti; ma le comunità minori, strapiene, non spasimano per accollarsi un quasi maggiorenne con tanti fallimenti alle spalle. E quindi? I dirigenti dei servizi sono in preda all’enigma: dove lo mettiamo? Chi se lo prende? Dove riescono a tenerlo? Servizio minori, servizio adulti, assistenti sociali - chi deve occuparsene? E la domanda cruciale, chi paga? In tutto questo ansioso prodigarsi, passa in secondo piano un'altra questione: cosa sta succedendo a Rowan?

Questa vicenda è un esempio - tra i tanti possibili - della deriva che ha imboccato il sistema della salute mentale: che sia coinvolta o meno la Magistratura, la priorità dei Dipartimenti è sempre più di natura allocativa: la risposta a situazioni ad alta complessità psico-sociale, e che spesso generano “allarme”, si concentra sulla ricerca del posto idoneo dove mettere il paziente.

Se, come in questo caso, si tratta di un minorenne, si deciderà senza il suo consenso. Ma questo capita ormai, quasi di norma, anche coi pazienti maggiorenni: siano essi dichiarati “non imputabili” in sede penale, per eventuali reati commessi - oppure “incapacitati” in ambito civile, coi sottili meccanismi della cosiddetta “coazione benigna” - essi potranno “beneficiare” di direttive e decisioni prese su di loro e al posto loro. Per loro “tutela”, si capisce, perché loro non sono davvero in grado di decidere per sé.

Rowan non è (ancora) un autore di reato. Dopo l’orfanotrofio a 6 anni arriva in Italia, in una famiglia che tanto lo ha desiderato. Quando sta bene è simpatico, sensibile, ama lo sport; ma da due anni Rowan non trova pace. I genitori per lui si fanno in quattro, cercano di capire quanto gli accade, disorientati dalle tante - e contraddittorie - diagnosi formulate, nonostante i test psicologici, il raffinato brain imaging, gli esami genetici. Diagnosi cui son seguite altrettante, e poco efficaci, terapie farmacologiche. Possibile - si chiedono, tra l’angoscia e la rabbia - che non esista un “posto” per curare nostro figlio? In situazioni così drammatiche, anche i genitori più amorevoli finiscono per credere che la ricerca del “luogo adatto” sia la chiave della cura.

Ma “dove lo mettiamo?” è quasi sempre una domanda sbagliata, in psichiatria. Rivela un’attitudine semplificatoria, passiva e deresponsabilizzante, che dipende non solo - o tanto - dall’effettiva difficoltà a trovare posti di assistenza, ma da un’allarmante rinuncia a uno stile di cura basato su relazione e alleanza terapeutica. Ci chiediamo quanto tempo - e spazio mentale - sia oggi rimasto nella testa degli operatori, per domande che non siano le procedure da seguire, i costi, i favori da chiedere per ricavare un posto letto, la formula da usare (a voce e nei referti) per evitare problemi legali. Domande che nutrano, invece, interesse per le persone: perché Rowan sta ancora così male? Perché nulla di quanto gli abbiamo proposto funziona? Qual è il suo vero problema, al di là delle diagnosi? Cosa spera in cuor suo di ricevere, che noi non capiamo o non riusciamo a dargli?

Un approccio di questo tipo viene spesso liquidato come impraticabile - per le “condizioni del sistema” - oppure bollato di “ideologia”, perché negherebbe (chi l’ha mai detto?) la malattia mentale e il fatto (questo si, lo neghiamo) che i nostri pazienti siano soggetti “incapaci” e “inconsapevoli”. In realtà non c’è minore età, perizia, ordinanza del giudice, psicopatologia grave o “non coscienza di malattia” che possa esentarci dai nostri fondamenti etici e clinici: ascolto (quello vero, che parte da un autentico interesse per la persona) confronto - anche duro - con la realtà; negoziazione, costruzione di “pezzi” di alleanza, ricerca di possibili (e spesso nascoste) aree di forza del paziente; riconoscimento, oltre i suoi sintomi, del suo potere contrattuale.

Solo con queste premesse, qualsiasi intervento terapeutico (farmaco, ricovero, comunità) può essere vissuto dal paziente come “giusto”, utile, occasione di cambiamento, può riattivare in lui la speranza, la motivazione - e non, invece, essere vissuto come imposizione /punizione/conferma della sua “disabilità”.

La sfida della cura - a cui richiamava giorni fa Gemma Brandi su queste pagine - richiede innanzitutto il riconoscimento del paziente come interlocutore. Senza alimentare la responsabilità e il coinvolgimento attivo del paziente, anche il più “protettivo” degli interventi, la più “intensiva” delle strutture/comunità è condannata all’anti-terapeuticità (manicomializzazione?).

Per questo il dilagare del modello di cura “coattivo-passivizzante”, basato su misure di sicurezza e obblighi di cura - spacciato come inevitabile e scientificamente appropriato - decreta invece la grave crisi del sistema: svilisce il terapeuta/psichiatra, soffoca la passione che mette nel suo lavoro, ne depotenzia (spesso ostacola) l’azione, allarga il solco di fiducia fra terapeuti, pazienti e famiglie, alimenta aggressività e perdita di speranza.

Enrico Di Croce
Psichiatra, ex Dsm Asl TO 4

Stefano Naim
Psichiatra, Dsm Asl Modena

07 marzo 2024
© Riproduzione riservata

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