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Metodo Stamina. Ma non bisogna preservare la speranza dei pazienti?

di Andrea Vanni

27 MAR - Gentile direttore,
le scrivo per un commento all'articolo dal titolo “Metodo Stamina. Nature si indigna insieme agli scienziati italiani”. 
Parlando di pazienti definiti "terminali" dalla "sanità", non ho capito bene cosa si intende con la frase conclusiva : “E che questo vuol dire che potrebbe essere nella migliore delle ipotesi inefficace, e nella peggiore nociva”. Io penso che una persona dichiarata "terminale", nella migliore delle ipotesi, potrebbe non morire e nella peggiore potrebbe rimanere "terminale".
 
Non so se ha letto l'intervista al prof. Veronesi pubblicata su Repubblica in questi giorni.
Le cito un passaggio:
[…] Ma sull'impiego delle staminali, ha aggiunto Umberto Veronesi, gli aspetti da considerare sono due: "Il primo è quello scientifico, il metodo non è provato e ciò è stabilito da tutti coloro che hanno guardato a fondo. L'altro aspetto - ha sottolineato Veronesi - è un problema psicologico, la persona che non ha speranze di guarigione è certamente autorizzata a recarsi ovunque, anche a cercare farmaci estratti dallo scorpione, o impiegare le cellule staminali. Si tratta di un discorso diverso. Non possiamo opporci - ha concluso l'oncologo - , possiamo dire che è un errore scientifico, ma non possiamo togliere la speranza alle persone”. 
Io sono d'accordo con lui...

Andrea Vanni
 
 
Gentile signor Vanni,
sono profondamente d’accordo con lei e con Umberto Veronesi. È verissimo che non si può e non si deve togliere la speranza alle famiglie e ai pazienti. Tuttavia, essendo la questione sicuramente delicata e controversa, non bisogna nemmeno alimentare false speranze. Ed è anche per questo che il metodo scientifico funziona così bene: seppure non sempre si possa evitare il problema, procedendo per successive verifiche si riduce al minimo la possibilità che scoperte importanti si rivelino del tutto errate.
 
Il metodo scientifico si basa infatti su dati ottenuti in laboratorio: questi devono essere ripetibili perché possano essere verificati, e devono essere pubblici perché possano essere sottoposti alla revisione della comunità accademica. Per questo i protocolli di sperimentazione vengono definiti in ogni dettaglio, le terapie hanno degli standard di applicazione, ed esistono enti regolatori che ne verificano sicurezza, efficacia e benefici.
Tutto ciò avviene sempre, a prescindere che i pazienti presentino un male curabile o uno incurabile.
 
Non è un caso che la nostra legge specifichi che l’uso “compassionevole” di terapie non ancora approvate sia possibile solo nel caso di pazienti terminali, ed esclusivamente previa approvazione della qualità della terapia. Come spiegano meglio gli esperti di Telethon in un comunicato diramato qualche giorno fa sull’argomento: “La legge prevede che, nel caso di malattia grave per la quale non esistano alternative terapeutiche (come spesso sono le malattie genetiche rare), un trattamento non ancora completamente studiato possa essere utilizzato, ma ciò soltanto se esiste un bilancio favorevole tra rischi e benefici, e comunque senza derogare alle regole che ne assicurano la qualità e sicurezza”.
In altre parole, la domanda che ci si è fatti è questa: è lecito pensare che visto che i pazienti terminali sono destinati all’esito letale, si possano giustificare su di loro terapie che non hanno ad oggi dimostrato di avere alcun beneficio? La risposta – sia per me che per la legge – è no.
 
Mancando le basi scientifiche su cui dare un giudizio sul rapporto tra rischi e benefici del metodo Stamina, quel che dicono gli scienziati italiani e internazionali è dunque nient’altro che si applichi questo criterio logico. In una nota che il Ministero aveva pubblicato già qualche tempo fa, si leggeva infatti che “il progetto terapeutico e le condizioni di applicazione della terapia sono assolutamente insufficienti e senza valida documentazione scientifica e medica riconosciuta a supporto”, sottolineando poi “che i rischi biologici connessi alla terapia sono gravi e inaccettabili e che la conduzione della metodologia non solo non ha rispettato le norme di manipolazione e sicurezza, ma anche i più elementari standard di indagine di laboratorio”.
Per semplificare e fare un paio di esempi, a queste parole del Ministero affianco due domande che io mi sono fatta in questi giorni: cosa succede se una terapia non approvata usata su un paziente terminale determina lo sviluppo di comorbidità, neoplasie, leucemia? E cosa succede se un metodo, utilizzato senza certificazione dei benefici, porta ulteriore dolore ai pazienti senza salvar loro la vita?
In questo senso penso che, dato per assodato il fatto che ad oggi gli unici studi disponibili dimostrano che il metodo Stamina non abbia alcun effetto sul corso della malattia a breve termine, il “trattamento” possa nella migliore delle ipotesi effettivamente non avere ripercussioni neanche nei momenti finali della vita di questi pazienti, ma nella peggiore delle ipotesi – che rimane comunque un’ipotesi, visto che non ci sono test che dimostrano né l’una né l’altra cosa – peggiorare la situazione.
 
Infine, per tornare alla questione della speranza dei pazienti, è assolutamente vero che “ogni persona che non ha speranze di guarigione è certamente autorizzata a recarsi ovunque, anche a cercare farmaci estratti dallo scorpione, o impiegare le cellule staminali”, come dice Veronesi. Tuttavia, come hanno esplicitato molto bene i tredici esperti che hanno scritto la lettera aperta al Ministro Balduzzi, “non rientra tra i compiti del governo assicurare che ogni scelta individuale sia tradotta in scelte terapeutiche e misure organizzative delle strutture sanitarie” e che comunque “non sono le campagne mediatiche lo strumento in base al quale adottare decisioni di carattere medico e sanitario”.
 
Laura Berardi

27 marzo 2013
© Riproduzione riservata

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