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Nel futuro meno medici? Una benedizione!

di Michele Vullo

13 GIU - Gentile direttore,
sulle pagine di “quotidianosanità.it” l’Enpam, ente di previdenza dei medici, ha lanciato l’allarme sulle future difficoltà dei cittadini italiani ad aver garantito il servizio attualmente offerto dalla convenzione sulla medicina generale. L’Enpam utilizza per la propria analisi il mero dato relativo ai 1499 medici di base che andranno in pensione entro il 2016. La notizia, non è nuova, già alcuni anni fa, il vice presidente  dell’ordine dei medici, in una intervista dichiarò che nell’arco di quindici anni si sarebbero avuti ben 90.000 medici in meno.
 
Le reazioni a queste dichiarazioni sono state, in genere, molto interessate. Basti ricordare che l’allora rettore dell’Università la Sapienza di Roma, Luigi Frati, dichiarò che era venuto il momento di ripensare il numero chiuso e oggi  la Fimmg  lamenta l’insufficiente numero di posti nelle scuole di specializzazione. Appare strano che non emerga alcuna presa di posizione che sostenga che la riduzione del numero dei medici in Italia è una benedizione, una grande occasione che occorre cogliere per contribuire a rinnovare il modello organizzativo del nostro sistema sanitario nazionale. Sistema, non dimentichiamolo, cresciuto dietro la spinta della pletora medica concretizzata nella creazione della guardia medica, nella medicina dei servizi, e nella costante duplicazione di strutture e servizi.
 
Oggi che il Paese è chiamato a pagare i costi della scarsa lungimiranza di chi ha deciso le politiche sanitarie, non è accettabile che si continui a guardare la realtà con gli occhiali degli interessi particolari trascurando ciò che accade intorno.  Non è possibile ignorare che i processi di riorganizzazione imposti dalla spending review in molte realtà sono  bloccati dalla difficoltà di gestire gli esuberi, soprattutto, quando riguardano professionisti come i medici e non operai della Fiat. Professionisti, i medici,  in grado di mobilitare intere comunità e politici inclini alla facile demagogia, a difesa di punti nascita con meno di 10 parti l’anno… venendo meno a quel rispetto della professione che dovrebbe fare dell’evidenza scientifica il faro di ogni scelta.
 
A conferma che sempre più i saperi sono piegati e subordinati a fini che poco hanno a che fare con la salute, trasformando in patologia normali condizioni di malessere o disagio all’interno di un, apparentemente, inarrestabile processo di “medicalizzazione” della società. Va ricordato che nel lontano 1986 la  1° Conferenza Internazionale sulla Promozione della Salute, riunita a Ottawa, fondandosi su evidenze epidemiologiche faceva presente alla politica il ruolo centrale della promozione della salute e dell'educazione sanitaria per assicurare un maggiore controllo sui destini sanitari dei cittadini e ridurre nel contempo le disuguaglianze di salute.
 
Sono passati quasi 30 anni da Ottawa ma la logica quantitativa rimane quella dominante. Capovolgere questa logica è necessario per ridare slancio alle politiche sanitarie a partire dalla crescita qualitativa del ruolo del medico di base come esperto dei percorsi diagnostico terapeutici presenti nelle reti che dovranno collegare  il territorio con i livelli di complessità  crescente dove l’ospedale rappresenta il punto di approdo finale e non di partenza dei percorsi  sanitari. In questa direzione è utile immaginare la possibilità di aprire l’accesso (a mio avviso sarebbe utile renderlo esclusivo) alla medicina di base ai medici ospedalieri con oltre 25 anni di servizio in modo da utilizzare la specifica competenza acquisita nel corso degli anni e soprattutto aprire opportunità d’ingresso nella medicina ospedaliera a giovani medici in grado di maggiormente sostenere i ritmi che il  lavoro in ospedale impone.  Un processo di rigenerazione, quindi, non più rinviabile pena l’inesorabile “senilità” di strutture che per loro definizione devono affrontare acuzie ed emergenze.      
 
 
Michele Vullo
Componente Esecutivo Federsanità Anci

13 giugno 2013
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