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Il nuovo Codice deontologico dei medici. Un'occasione per ripensare la medicina

di Pierantonio Muzzetto

09 SET - Gentile direttore,
lo scritto, frutto della penna e del pensiero dell’amico Ivan Cavicchi, pubblicato su Quotidiano Sanità dal titolo “Il Codice deontologico dei medici e le professioni secondo l’Istat. Il cambiamento che non c’è” è senza dubbio interessante e stimolante – come sempre - e offre alla considerazione una serie di argomentazioni che sono di per sé spunti attivi di riflessione, richiamati dalla sua visione post moderna e “neologica” della realtà sanitaria. In estrema sintesi propone: ripensare all’agente. Che non è solo una valutazione dei costumi ma pone interrogativi e sollecita una domanda: chi è e cosa fa l’agente ancor prima del cambiamento che non c’é?
 
Egli parte dall’analisi di posizioni espresse e pone di fatto il problema del Nuovo codice deontologico (forse inadeguato?) e del significato della riproposta classificazione Istat delle professioni. Viste forse come vetuste e “matuse”, slegate come sono dalla realtà che si va configurando. Egli parte dalla considerazione del “problema comune: a quale “genere” appartengano i comportamenti professionali normati con delle etiche deontologiche e a quale “genere” appartengono i ruoli classificati con dei criteri operativi”.
 
Il giudizio parrebbe tranchant: una deontologia e una classificazione delle professioni da ancien régime, per di più nel pieno del conflitto interprofessionale, ideologico o reale, con il costante richiamo alla peculiarità delle professioni e delle specializzazioni. Termini concreti ma arcaici - da abbandonare tout court, ci sarebbe da dire proseguendo nel ragionamento - o perlomeno da ripensare, ancor più se resi negativi dalle desinenze “ismi”. Nel proseguio del ragionamento non pare, perciò, fuori luogo porre un argine speculativo alla retorica della “logica delle rivendicazioni”, talvolta ideologiche e politiche, le cui finalità non appaino in sintonia col reale miglioramento della sanità. Dice Cavicchi “Del resto come è possibile tradurre la post modernità in deontologie e ruoli professionali se non ripensando l'agente, sia esso medico o infermiere, cioè colui dal quale dipendono tanto i comportamenti deontologici che quelli professionali?”.
 
Il vero problema è riportare il ragionare sul terreno della concretezza, rimanendo nell’alveo della concordia e della sinergia. Non è, a nostro parere, un “minus valoriale” quella modernità superata, o la post modernità che dir si voglia – e i limiti fra modernità o post modernità sono alquanto sfumati se non esclusivamente semantici - o quando si consideri, o meglio non si consideri, quale valore sia da attribuire al concetto di pertinenza e di funzione. “L'epoca del compito è finita - continua Ivan Cavicchi - mentre sta prendendo piede quella dell'impegno. Non si tratta più di definire declaratorie, mansionari, profili a prescindere dall'agente ma di definire condizioni d’autonomia e responsabilità dell'agente in funzione degli obbiettivi che gli competono. Come si definiscono gli impegni? Una volta che si è risposto a questa domanda bisogna dire quale deontologia e come classificarli. Questo è il problema che un vero riformismo dovrà affrontare”. Questa domanda, epocale quanto si voglia, è tutt’altro che retorica, provocatoria forse, tenendo ben in conto che le direttive o i compiti in vulgata nell’operare non siano comunque da abbandonarsi. E allora, cos’è l’impegno? Purché il quesito non impegni troppo, facendo perdere di vista il concreto della res sanitaria, il concetto d’impegno non può non derivare da funzione, mansione o compito; ancor prima da competenza e da preparazione specifica, soprattutto quando sia proposto come esclusiva lettura delle diversità operative che non possono non essere fra loro collegate.
L’agente agisce per competenza ove il denominatore sia perciò declinabile con l’impegno nel perseguimento degli obiettivi e, non se ne voglia, degli auspicati risultati.
 
Riformismo, dunque, o vere riforme? È sufficiente parlare di agente e non dell’agito? Di teoria del sistema senza anteporre il perseguimento di risultati oggettivi?
Invertendo l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia, direbbe la regoletta algebrica: pensare alle professioni in base agli impegni che sottintendono compiti legati agli obbiettivi è, sì, rivoluzionario, ma solo nel momento in cui vi sia chiarezza di funzione in una sorta di “ritorno al futuro”.
E allora impegno e compito sarebbero consequenziali a parti invertite, fra loro correlabili al punto da vedere proprio la loro sublimazione nel risultato: invertendo l’ordine dei fattori (sempre presenti) il prodotto, perciò, non cambia! Ma va da sé che impegno debba declinarsi con autonomia: la carneade dei nostri giorni. Ma allora da domanda nasce domanda: cosa vuol dire e come si applica in un sistema complesso, nell’esercizio delle funzioni in sanità? Da come venga declinata ne conseguirebbe incomunicabilità o collaborazione. Occorre ragionarci sopra. E nella consecutio temporum compare la favoletta dell’autonomia. Tutto e niente, se non sia coniugata con la realtà operativa e con le esigenze della società e del cittadino debole: l’ammalato.
 
In ambito puramente speculativo, ma non lontano dalla prassi, in sintesi si può affermare che parlare di autonomia in ambito sanitario non possa essere che “di scala” e non certo assoluta. Perché questo sarebbe il solo modo che si attui una collaborazione e non una strutturazione degli interventi per compartimenti stagni.
 
E qui risiede uno dei veri problemi di fondo: l’autonomia. Quella stessa che il vero riformismo dovrebbe definire, una volta per tutte, perché si arrivi a ragionare in termini di reale efficacia e di efficienza del sistema. Allora autonomia diventa paradigma in base alle esigenze, alla funzionalità, alle regole e alle necessità. E alla sostenibilità economica e sociale. Che però non può non tenere conto di un sistema ove l’impegno non sia espressione della molteplicità e della sfaccettatura delle funzioni, e ove abbiano un ruolo definito e preciso proprio le autonomie che esprimano le capacità di rispondere con competenza alle mansioni ricoperte, in un sistema pur sempre coordinato e attivo nel dare risposte a seconda dell’evenienze non sempre dimensionabili o prevedibili. Il sistema rimarrebbe in equilibrio quando si arrivasse a determinare quale sia il peso delle autonomie in un’economia di scala del sistema salute. Che tradotto in termini più concreti significherebbe pesare l’autonomia in relazione all’impegno e agli obiettivi, non slegata, cioè, dal contesto di un’attività coordinata e continuativa delle varie figure della filiera sanitaria, cui debba derivare un’indispensabile e oggettiva responsabilità di risultato.
 
In tema di salute – è acclarato - il risultato diventa l’unico vero indicatore, indipendentemente dalla molteplicità degli interventi. Dunque quando si tratti di autonomia non si crede possibile non parlare di autonomia di scala, subordinata, finalizzata, in un sistema complesso. In cui si debba contemplare impegno e ambiti d’azione, così come i compiti e chi li stabilisca: il che equivale a determinare proprio l’impegno. Pena l’incomunicabilità e caos, non certo vetustà di pensiero legato a post modernità. Ma in un sistema basato sull’impegno non possono escludersi le verifiche e non si può fare a meno dei compiti, demandati che siano allo Stato o alle Regioni, attraverso Leggi e decreti. Una sanità amministrata per Leggi e decreti sarebbe forse la fine della sanità, postulando una realpolitik segno di una cultura superata dai tempi e dal concetto stesso di efficacia. Proseguendo nel ragionamento, per contrapposto platonico, in un sistema liberale e aperto non può non pensarsi ad un Primo Determinate, un vero motore intelligente, cui derivino a cascata responsabilità, esse stesse di scala.
 
A ben vedere, ad attenti osservatori della res sanitaria non è sfuggito che in questo sta la fallacità della riforma sanitaria vigente, vedendo invece come positiva quella vecchia, superata solo sulla carta. Due i concetti di richiamo filosofico: l’armonia del gestire e la concretezza dell’agire. Ciò, in relazione alla res professionale, in cui si coniughino modularità degli interventi, fra loro coordinati, con obiettivi cui derivino i risultati. Ciò esprimerebbe quella modernità vera, che in un futuro programmato deve fare i conti con l’esigenza mai doma di progredire in ambito di tutela e gestione della salute in cui sono necessarie risposte concrete.
 
In verità si è chiamati a ragionare di sanità in termini reali, concreti e di fattibilità nel rispetto del cittadino e dell’ammalato. In questa fase di modernità, in progress, non si può prescindere dall’identificare certezze: la e le competenze, che il solo impegno non può giustificare, ne sono le principali. Di concerto sarebbe più interessante ragionare sull’obiettivo del ragionamento, ponendo al centro di ogni valutazione l’uoma – per dirla con la Fallaci – e la sua salute, intesa come diritto alla buona cura e il cui processo presuppone la collaborazione – termine, questo sì troppo rapidamente dimenticato – fra competenze certe, peculiarità con responsabilità differenziate. E questo è la seconda certezza. Ciò in risposta alle esigenze di un sistema in cui al centro dell’universo sanitario sia collocato quell’ammalato, paziente o sofferente, la cui vera necessità è avere considerazione, risposte concrete e, soprattutto, risultati. Ma in tutto non si può non citare la terza certezza: la definizione del limite. Il limite fra economia e economicismo, fra valore delle scelte e attori, fra adeguate risorse e risultati. In un insieme in cui il bene salute possa diventare il vero indicatore di efficacia degli interventi; ossia il valore o il plus valore di una società attiva, quale bilancio positivo di una nazione civile.
 
In un sistema complesso, in cui si conoscano gli obiettivi e gli attori e in esso vengano evidenziate le responsabilità, si può affermare che si possano riconoscere e valorizzare le professionalità che fra loro collaborano. Certo è che non decade certamente il rapporto fra medico e paziente, pur in presenza di un nuovo e costruito rapporto fra ammalato e professionisti sanitari. Come altre realtà ci insegnano assieme a collaborazione va riesumato un altro sostantivo, anch’esso fondamentale: rispetto. E magari questa sarebbe la vera modernità nel rivalutare tali aspetti ritenendo, non a torto, che non siano meri aspetti filosofici o retaggi di una cultura romantica. Ma espressione di un’esigenza della società che mira a rivalutare, e mantenere vivo, il concetto duale nel rapporto col paziente; come non è certo un retaggio della post modernità parlare di paziente, allorquando definirlo persona assistita suoni piuttosto retorico, anche se ideologicamente à la page e solo per taluni politically correct.
 
Il vero dilemma in sanità è l’incomunicabilità, perché alla fine tutto gira intorno a questo. Con danno evidente proprio derivante dal non prevedere il limite dell’agire, che – con ispirazione democratica - finisca proprio dove inizi quello dell’altro. Il cui mancato rispetto, rimanendo nell’argomentare socio-filosofico, produrrebbe come risultato la marginalizzazione del concetto di efficacia, vero snodo cruciale o giunto cardanico dell’agire polifunzionale nel recupero della salute della “persona ammalata”. Il paziente, per l’appunto.
 
Se deve essere ripensato l’agente e il suo impegno, questo non può scindersi dal concetto di pertinenza, preparazione e, soprattutto, di responsabilità, che non può non essere differenziata in relazione alla peculiarità dell’agire.
 
Diventa auspicabile una più consona visione etica, mater et magistra della deontologia ripensata sui valori non negoziabili pur attualizzata. Non costruita, dunque, sull’attore ma modulata sul valore e sulla sua salvaguardia del valore binomiale dell’uoma e della salute. Non si ritiene di poter prescindere da questo valore che la post modernità con la sua dinamica relativistica, fortemente imperante, spesso trascura o addirittura misconosce ispirandosi ai principi di un’economia perversa o all’economicismo.
 
Magari ripensare l’agente, senza retorica. Richiamandosi a una modernità che sia segno di evoluzione, ma anche di tradizione e di concretezza, all’insegna del non paternalistico buon senso, che spesso viene dimenticato nel trattare aspetti e equilibri sanitari in evoluzione adattativa. Il rischio reale di modulare il giudizio solo sull’impegno è svuotare di altri elementi proprio l’agire e l’agente e, per dirla con Cavicchi, gli autori, che esprimono un’autonomia “mediata” dalla responsabilità. Altrimenti, per artificio retorico o per utilitarismo politico - per dirla col filosofo - si avvallerebbero figure che sempre più appaiono come i frutti dell’ippocastano, belli ma assolutamente non commestibili.
 
Alla fine, oggi, il vero snodo cruciale è il superamento della teoria dell’incomunicabilità, con recupero dei valori etici, e lo si può ottenere col concorso di filosofi, sociologi e, soprattutto, delle persone dotate di buon senso, in una società che dimostri attraverso i suoi atti concretezza, modernità, mai disgiunti da responsabilità, peculiarità, competenza, abnegazione e… risultati. Ripensando, così, all’agente e all’agito
 
Pierantonio Muzzetto
Presidente Omceo Parma, Presidente Frer Om e Componente della Consulta Nazionale Deontologica Fnomceo 
 
(Vedi bozza nuova bozza Codice deontologico Fnomceo)

09 settembre 2013
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