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Infermiere di famiglia. Chi l’ha visto?

di Paolo Rocconi

29 GEN - Gentile direttore,
nel ringraziarla per l’ampio spazio di diffusione delle idee e di contributi culturali e professionali che la sua testata pone a disposizione degli attori del panorama sanitario e segnatamente del mondo infermieristico, sono a raccogliere gli spunti di riflessione e di analisi offerti da diversi contributi giù pubblicati. E in particolare anche riguardo alla crisi dei Pronto Soccorso e all’emergenza posto letto negli ospedali.
 
Un tema che offre un importante spunto anche per il dibattito sullenuove competenze infermieristiche.
 
Al riguardo esperienze pure significative, come ad esempio il modello toscano di See&Treat, continuano a dimostrare come nel nostro paese ci si voglia concentrare, ostinatamente,  su modalità di gestione dei fenomeni indesiderati, piuttosto che nel comprendere e cercare di prevenire i determinanti; tra l’altro, con consumi di risorse elevati e con risultati, in termini di rapporto di costi –benefici, da dimostrare.
 
Credo sia da considerarsi pertinente con tali problematiche riportare alla giusta attenzione una risorsa professionale di assoluto rilievo nell’organizzazione e nella gestione dell’assistenza socio-sanitaria in favore di quel segmento di popolazione (soprattutto anziani) che versa in condizioni di cronicità, comorbilità e disabilità. Risorsa che in contesti extra nazionali  si è dimostrata essere in grado di incidere favorevolmente sullo stesso fenomeno dell’utilizzo inappropriato dei Pronto Soccorsi: l’infermiere di famiglia (e di Comunità).
 
Numerose esperienze, anche italiane, hanno mostrato che questo Infermiere, non occupando affatto spazi di competenza del Medico di Famiglia, è in grado di colmare quel vuoto assistenziale che lascia orfana di governo clinico una parte consistente della domanda di salute dei cittadini, provvedendo alla valutazione dei bisogni di prevenzione primaria, secondaria e terziaria e alla promozione della salute.
 
L’argomento merita un breve excursus: L’OMS definisce tale figura, insieme al medico, il perno della rete dei servizi, specificandone le funzioni: “..aiuterà gli individui ad adattarsi alla malattia e alla disabilità. Faciliterà le dimissioni precoci dagli ospedali fornendo assistenza infermieristica a domicilio. Agirà da tramite tra la famiglia e il medico di base, sostituendosi a quest’ultimo quando i bisogni identificati sono di carattere prevalentemente infermieristico…”. E per rispondere ai bisogni di salute dei cittadini della Regione Europea, anche l’Unità per l’Infermieristica dell’Ufficio Regionale ha condotto studi sui differenti modelli di nursing, nell’intento di renderli coerenti con i 38 obiettivi del programma. Ne seguì la prima Conferenza (Vienna, 1988) come risposta alle priorità individuate. Dalla Conferenza scaturì la “Dichiarazione di Vienna sull’Infermieristica”: documento in cui trovarono definizione chiari indirizzi strategici di intervento. I rappresentanti dei paesi membri consigliarono, in primo luogo, lo sviluppo di servizi infermieristici innovativi, centrati sulla promozione della salute.
 
Secondo le direttive di Vienna la pratica infermieristica avrebbe dovuto basarsi prioritariamente proprio sull’assistenza sanitaria primaria. Le funzioni dell’infermiere: assistenziale, organizzativa, educativa e di ricerca, trovarono una loro precisa definizione è si affermò l’opportunità di formare infermieri il cui profilo potesse vedere come contesto operativo sia l’ospedale sia la comunità; infermieri in grado di imprimere enfasi alle tematiche dell’assistenza socio sanitaria di base. L’impulso impresso dalla Conferenza sfociò nel progetto “Nursing in Action” (1993) elaborato proprio con lo scopo di rafforzare l’infermieristica affinché potesse supportare la politica europea della salute per tutti. Il progetto “infermiere di famiglia” si indirizzava così verso due aspetti: la leadership infermieristica e lo sviluppo della qualità del nursing con l’obiettivo di creare servizi orientati ad una assistenza che ponesse al centro del sistema la persona (i suoi bisogni) e di raggiungere risultati di salute in termini di qualità, efficacia ed efficienza delle cure, nel rispetto dei principi di equità e appropriatezza sanciti dalla politica europea per la salute. Successivamente, a Monaco (1999), i ministri della sanità dell’UE aderenti all’OMS si riunivano proprio per tracciare un nuovo profilo di infermiere in grado di fornire un contributo originale allo sviluppo sanitario ed alle prestazioni dei servizi in ambito socio sanitario: l’infermiere di famiglia!.
 
Il programma OMS “Salute 21”, approvato dal Comitato Regionale nel Settembre 1998 a seguito delle consultazioni tra i 51 Stati membri ed altre grandi organizzazioni intendeva favorire un quadro di riferimento per promuovere l’azione di ciascuno stato, in modo che tutti potessero definire proprie strategie sanitarie in linea con quelle del documento mondiale di programmazione. Ecco dunque che anche in Italia l’infermiere viene ad assurgere a “risorsa strategica” nell’ambito di un progetto, più ampio, di organizzazione dei Nuclei di Assistenza Primaria. Acquisisce un ruolo distintivo durante tutto il continuum assistenziale, compresa la promozione della salute, la prevenzione della malattia, la riabilitazione e l’assistenza ai malati (compreso il contesto di fine vita).  Lo stesso Salute 21 puntualizzava: “Per chi offre assistenza primaria è importante conoscere la situazione in cui vivono i pazienti: la casa, la famiglia, il lavoro, l’ambiente fisico e sociale possono avere un peso considerevole sulle malattie. Se gli operatori non sono consapevoli di questi fattori, alcuni sintomi insorgenti possono venire interpretati in maniera non corretta ed i problemi non riconosciuti non vengono curati. Ne possono risultare procedure di diagnosi e cura non necessarie che aumentano i costi senza contribuire ad analizzare i problemi reali”.
 
Ma un sondaggio condotto dal programma di infermieristica dell’OMS, nel rilevare i caratteri di diversi modelli di infermieristica di comunità, faceva osservare come ruoli e titoli attribuiti agli infermieri nei diversi paesi delineavano un quadro eterogeneo, mentre l’elemento guida nel nuovo concetto di infermiere di famiglia si sarebbe dovuto sostanziare in un rafforzamento delle sue caratteristiche specialistiche, come ad esempio le competenze culturali e comunicative nei riguardi delle famiglie e delle collettività, l’autonomia e la responsabilità professionale (accountability), l’orientamento alla dimensione domiciliare intesa come ambiente in cui i membri della famiglia e i caregivers possono collaborare per la soluzione dei problemi di salute e per la creazione di modelli di “famiglia sana”.
 
L’ obiettivo n.15  Un settore sanitario integrato sanciva:“Da qui al 2010 la popolazione della regione dovrà avere un migliore accesso all’assistenza sanitaria di base centrata sulla famiglia e la comunità, sostenute da un sistema ospedaliero atto a far fronte a diverse situazioni. In particolare:
- almeno il 90% dei paesi dovrà aver dato luogo a servizi di assistenza sanitaria di base che assicurino continuità delle cure utilizzando sistemi di orientamento dei pazienti…;
- in almeno il 90% dei paesi i medici e gli infermieri di famiglia dovranno formare il nodo di quei servizi integrati di assistenza che dovrà fare riferimento ad équipes pluridisciplinari raggruppanti professionisti del settore sanitario, sociale e di altri settori, e dovrà beneficiare della partecipazione della popolazione locale…”.
 
Occorre infine evidenziare come oggi Case della Salute, Società della Salute, Primary Care Trusts, non siano che differenti denominazioni di una comune esigenza di integrazione dei servizi; esigenza, a mio avviso, non più rimandabile. Occorre infatti implementare tutte le esperienze, le sperimentazioni in atto, i modelli improntati alle visioni locali ed informati ai principi del lavoro in team, della non duplicazione delle funzioni, dei programmi finalizzati a destinare risorse strutturali, tecnologiche ed umane di cui la medicina generale e l’infermieristica hanno assoluta necessità.
 
Le Cure Primarie devono farsi carico dei i bisogni sociali e sanitari del territorio e delle persone, nelle loro condizioni comuni di vita e di lavoro. Va da sé che un tale sistema deve fondare il proprio successo anche su una potente infrastruttura informativa in grado di riconoscere, attuare, valutare, premiare e diffondere le buone pratiche di assistenza primaria, sia tra le strutture di cura sia tra i professionisti all’interno delle Unità di cura. Queste devono svilupparsi verso modelli che abbandonando la marginalità degli interventi, si dotino degli strumenti atti a garantire, in modo equo ed appropriato la salute dei cittadini. Ma è tempo di concretezza. Tempo di attività sinergiche (istituzioni, cabine di regia, organizzazioni, associazioni), che superino ogni steccato. Davvero tempo di destinare le giuste risorse. E tempo di condividere i valori, le informazioni, le priorità, gli interventi ed i benefici del lavorare insieme per obiettivi comuni, abbandonando forme di autoreferenzialità e logiche di tutela meramente corporativistiche.
 
Paolo Rocconi
Dott. Mag. Scienze Infermieristiche ed Ostetriche

29 gennaio 2014
© Riproduzione riservata

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