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Infermieri. Chi vuole sostituirli con le "badanti"? Lo strano caso dell'Emilia Romagna

di Andrea Bottega

27 GIU - Gentile direttore,
ormai esistono tutti gli elementi politici per parlare a pieno titolo di “questione infermieristica”, cioè di una problematica professionale composta da tanti problemi e soprattutto al centro di numerose e ripetute contraddizioni. L’infermiere ormai è la principale vittima di un economicismo sanitario spinto all’inverosimile che da una parte lo sollecita a svolgere competenze avanzate e dall’altra lo giudica troppo dispendioso per impegnarlo nell’assistenza domiciliare che la nuova domanda di salute richiede ma soprattutto che lo tiene congelato in una condizione in cui egli, nonostante i titoli di studio, continua a essere qualcosa di ambiguo e di indefinito al solo fine di poterlo sfruttare il più possibile con impieghi impropri, organizzazioni spesso demansionanti, condizioni di lavoro che forzano pericolosamente, come ha detto qualcuno, i doveri definiti dalla sua deontologia.

Quasi come la proverbiale “goccia che fa traboccare il vaso” giunge all’attenzione del sindacato Nursind, purtroppo in ritardo per un’impugnazione in sede legale, la delibera della Regione Emilia Romagna n. 220 del 24 febbraio 2014 avente ad oggetto “indicazioni sui percorsi relativi alle pratiche assistenziali eseguite a domicilio da personale laico su pazienti con malattie croniche, rare e con necessità assistenziali complesse”, pubblicata nel BUR n. 87 del 26 marzo 2014.
In tale documento si approvano due allegati che contengono le indicazioni sui percorsi relativi alle pratiche assistenziali eseguite a domicilio da personale laico e il progetto formativo di educazione terapeutica relativo alle pratiche assistenziali eseguite a domicilio. In sostanza si prevede una formazione di 24 ore al personale laico (badanti o familiari) per imparare le pratiche assistenziali inerenti l’ossigenoterpia, la broncotracheoaspirazione, la gestione dei cateteri venosi centrali e degli accessi vascolari e la terapia anticoagulante, gestione del sondino naso gastrico e della gastrostomia e colostomia, pratiche inerenti il cateterismo vescicale e l’urostomia e la dialisi peritoneale, l’effettuazione di medicazioni delle lesioni cutanee e la somministrazione di farmaci (terapia endovenosa, intramuscolare, sottocutanea, intradermica, orale).

Dopo un’attenta lettura della delibera mi sento in dovere di fare alcune considerazioni e di condividerle con il mondo professionale attraverso il suo quotidiano.

1. I presupposti. Dalla lettura della premessa, che evidenzia le ragioni per cui si è ritenuto approvare il documento, si evidenzia che il Servizio sanitario regionale non è in grado di garantire direttamente un’assistenza infermieristica professionale a quei pazienti che le politiche di tutti i piani sanitari regionali hanno ormai trasferito dagli ospedali al territorio (“Visto che i bisogni dei pazienti sono altamente complessi e si estendono sull’intero arco della giornata, rendendo a volte non garantibile l’Assistenza Domiciliare Integrata”). I pazienti con “necessità assistenziali complesse” trovano, o per mancanza di strutture o per economicità (“in termini di risparmio ospedaliero”, “oltre a garantire un risparmio di tempo ed un’ottimizzazione delle risorse umane attualmente sempre più scarse”) la loro collocazione in posti letto presso il domicilio. Questi pazienti possono richiedere interventi a brevissimo termine tali da motivare, per esempio, la trachebrocoaspirazione da parte del personale laico per evitare l’ostruzione delle vie aeree (parere del Consiglio Superiore di Sanità) costringendoli a eseguire “manovre sanitarie domiciliari”. In sostanza, a me pare, che si affermi che lo stato di necessità determinato da un deficit organizzativo e di risorse umane ed economiche può ragionevolmente motivare un provvedimento che autorizzi personale senza alcuna preparazione in campo sanitario (24 ore di formazione possono essere messe a confronto con la preparazione derivante da corsi universitari e dalle numerose ore di tirocinio presso diversi reparti ospedalieri?) a compiere delle prestazioni/attività che in una realtà correttamente organizzata e dotata di risorse (per es. la struttura ospedaliera) sarebbero di competenza infermieristica. Ciò è ancor più preoccupante perché anche nel nuovo Patto per la Salute è ribadito che l’organizzazione dei servizi è in capo alle regioni e se l’autogestione sanitaria è la nuova organizzazione dei servizi territoriali si capisce che in sanità si possono fare ancora grandi risparmi. Questo presupposto economico-organizativo non può essere accettato acriticamente a tutela dei cittadini, di un servizio sanitario pubblico e dei professionisti che si sono formati secondo gli ordinamenti vigenti.

2. Aspetti giuridici. Viviamo in un’epoca dove la scienza economica ha la preminenza sulle altre scienze. Possono le ragioni economiche – contenimento dei costi pubblici – essere preminenti sul diritto? Nello specifico, è corretto dal punto di vista giuridico stabilire che determinate attività o prestazioni siano eseguibili da personale laico se siamo nel territorio mentre se si è all’interno di una struttura ospedaliera tali attività debbono essere considerate riservate alle professioni regolamentate? È sufficiente una formazione “collaterale” a quella istituzionale abilitante una professione sanitaria per giustificare l’esecuzione di manovre sanitarie riservate? Ad esempio, basta un corso sull’utilizzo di quell’apparecchio radiologico – come indicato da alcune aziende sanitarie che vogliono risparmiare sul personale tecnico da utilizzare in sala operatoria o in emodinamica - per poterlo usare anche se non si ha il titolo di tecnico sanitario di radiologia medica? E perché i giudici del tribunale di Montepulciano hanno dichiarato che sull’utilizzo dei POCT (point of care testing) da parte degli infermieri – visto che il corretto adempimento delle procedure analitiche è competenza del tecnico sanitario di laboratorio biomedico ai sensi del DM 745/94 - “deve ritenersi che l’attività pretesa è illecita per non essere compatibile con le attività esercitabili dall’infermiere”? Se il contenuto delle attività che possono essere svolte dagli esercenti la professione sanitaria è quella prevista dai decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali e degli ordinamenti didattici, può una regione legiferare diversamente attribuendo tali contenuti anche ad altro personale? Può il diritto alla salute (art. 32 Cost.) essere assoggettato a prestazioni non professionali per ragioni organizzative o di scarsità di risorse? Ancora, il Consiglio Superiore di Sanità può attribuire “un atto riservato a professionisti sanitari e, pertanto, diventerebbe abusivo se espletato da altre persone” (premessa al parere CSS del 25 marzo 2009 sull’Abilitazione ad effettuare aspirazioni endotracheali) come la tracheobrocoaspirazione a personale laico in “deroga” a quanto stabilisce la legge? L’affermazione del DM 739/94 che l’infermiere “garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche” ha ancora senso in quanto definente l’esclusiva competenza tra le professioni sanitarie non mediche? Che senso ha parlare di abusivismo professionale di fronte a tale liberalizzazione? E che senso ha l’IPASVI visto che la sua prima finalità “è la tutela del cittadino/utente che ha il diritto, sancito dalla Costituzione, di ricevere prestazioni sanitarie da personale qualificato, in possesso di uno specifico titolo abilitante, senza pendenze con la giustizia ecc.”?

3. Più badanti e meno infermieri. Sappiamo che il mercato è in continua evoluzione e questa è anche l’epoca del mercato low cost. Alla luce della citata delibera dire che le badanti sono le nuove infermiere low cost non mi pare così troppo azzardato. L’azzardo è che non lo sono solo per le tasche dei familiari che non possono permettersi un’assistenza svolta da un professionista ma lo sono anche per i sistemi sanitari regionali, per le istituzioni che dovrebbero garantire la nostra salute e per quelli organi legislativi periferici che fanno di necessità virtù ponendo i costi dei propri compiti istituzionali a carico delle famiglie oltre la fiscalità comune rinunciando ad offrire l’assistenza professionale che lo Stato si è impegnato ad offrire formando un apposito professionista con un percorso di laurea triennale. Che ci sia un enorme bisogno di assistenza di carattere sanitario lo si deduce dal numero di badanti – non colf – presenti in Italia. Secondo il Censis sono più di un milione e seicentomila. Ciò significa che ci sono più di un milione e seicentomila cittadini che vivono in uno stato di carenza assistenziale. Chi sono? In buona parte sono quei malati che secondo la delibera dell’Emilia Romagna hanno “necessità assistenziali complesse” e che l’ADI non è in grado di gestire perché richiedono la presenza di personale nelle 24 ore. La carenza di personale nelle organizzazioni territoriali e l’impossibilità stabilita da vincoli assunzionali (blocco del turn over e vincoli finanziari) stanno quindi limitando l’erogazione diretta delle prestazioni sanitarie da parte dei professionisti appositamente formati. In carenza di risorse economiche le regioni tagliano i servizi professionali alimentando la disoccupazione infermieristica e incentivando l’assistenza low cost delle badanti provenienti dall’estero.

4. Nascita o tramonto dell’infermiere di famiglia? In questo quadro di forte presenza nel territorio di persone che necessitano di assistenza complessa che ruolo può svolgere la figura dell’infermiere? Solo quello di supporto, supervisione e di formazione dei caregiver oppure anche quello di erogazione diretta delle attività assistenziali? Cosa resta di esclusivo del nostro profilo professionale? La responsabilità del processo assistenziale piuttosto che l’esecuzione dei singoli atti? La risposta a queste domande non ha conseguenze banali perché oltre ad incidere sul mandato di una professione ne determina anche il suo fabbisogno e il suo impiego nelle diverse situazioni. Gli infermieri saranno ancora confinati nella “riserva” dell’assistenza ospedaliera oppure potranno trovare un impiego diretto e massiccio nel territorio? Ci sarà ancora bisogno nel territorio di un infermiere con competenze di base oppure ci saranno solo infermieri specializzati come l’infermiere di famiglia? Un tale infermiere specializzato sarà un limite per le politiche professionali di occupazione ponendosi al fianco del personale laico?

5. Quale futuro per l’assistenza infermieristica? Riflettendo sulle varie contraddizioni che compongono la “questione infermieristica” mi sono dovuto interrogare nuovamente su che cos’è l’assistenza infermieristica generale di cui come infermiere sono responsabile. Capisco che non si può legare una professione a singoli atti ma l’insieme delle competenze base dello svolgimento dei singoli atti che trovano il loro senso in un processo o percorso assistenziale può essere sottaciuto o svenduto ad altri attraverso una breve formazione? L’assistenza infermieristica si deve limitare alla pianificazione dei bisogni oppure si deve occupare anche della loro soddisfazione decidendo in autonomia e caso per caso e non ex lege, come nella delibera della Regione Emilia Romagna, chi debba dare la risposta a quei bisogni? Se su prescrizione medica i laici nel territorio possono effettuare medicazioni, gestire accessi venosi, sistemi di ventilazione meccanica con broncoaspirazioni, gestire sondini, cateteri e altri presidi sanitari, somministrare terapie, svolgere le cure igieniche a pazienti con bisogni assistenziali complessi, che senso ha che negli ospedali tali prestazioni siano svolte da professionisti? Non basterebbero degli ausiliari al posto degli infermieri nei reparti di medicina e chirurgia? La loro formazione è di gran lunga superiore rispetto alle 24 ore proposte dalla delibera dell’Emilia Romagna e anche qui l’assistenza è complessa come nel territorio. Alla luce dei contenuti di questa provocatoria delibera non sarebbe ancor più grave il demansionamento che si vive nelle corsie degli ospedali? E poi, possiamo considerare tutti gli studi internazionali che documentano gli esiti qualitativi di un’assistenza qualificata rispetto a una “laica”? Se i legislatori non tengono conto di ciò a cosa servono questi studi? Non dovrebbero orientare l’organizzazione dei servizi?

6. Le competenze specialistiche possono essere la risposta ai problemi della professione? E’ in questo quadro di mutamento delle risposte ai bisogni di salute dei nostri cittadini che l’assistenza infermieristica viene ridefinita d’autorità senza che qualcuno abbia il buon senso di ascoltare le ragioni degli infermieri e dei malati. Quella che ci stanno scodellando non è più l’assistenza delimitata vent’anni fa dal DM 739/94. Ma se da allora la norma non è cambiata è cambiata drammaticamente la realtà di esercizio della professione. Vent’anni fa il fenomeno delle badanti come lo conosciamo oggi non c’era. I confini tra la professione infermieristica e il personale non sanitario (oggi oltre alle badanti si osserva anche il massiccio impiego del volontariato in diversi ambiti prima coperti da personale sanitario) sono meno chiari, così come la poca chiarezza dei limiti tra le professioni sanitarie sta determinando un loro riposizionamento che va sotto il nome di upgrade delle competenze. Ciò, se può essere una dinamica naturale all’interno di un contesto professionale dove la formazione ha luoghi, tempi e percorsi simili, non è comprensibile e tollerabile se esportato al personale senza alcuna formazione in ambito sanitario. Le competenze specialistiche sono un di più che, pur non essendo state ancora definite, non possono soppiantare le competenze di base. Sulle competenze di base sono impiegati oggi la stragrande maggioranza degli infermieri che si chiedono che senso ha avuto studiare e avere un’abilitazione professionale se poi parte di quanto studiato e appreso poteva ben essere svolto da personale laico privo del percorso accademico. A loro va il nostro sguardo prima che all’evoluzione della professione perché il cammino di crescita lo vogliamo fare assieme senza lasciare indietro nessuno.
La delibera dell’Emilia Romagna, sino ad ora, praticamente è passata sotto silenzio quasi come un sotterfugio. Eppure immagino che su tale tema siano stati interpellati i collegi IPASVI perché se così non fosse mi chiedo cosa fanno se non monitorare e intervenire a nome nostro a tutela della professione. Penso che le stesse domande che mi sono posto io se le siano poste anche i colleghi dei direttivi dei collegi dell’Emilia Romagna e mi piacerebbe sapere la risposta che loro si sono dati visto che tal genere di delibere riscrivono di fatto il nostro lavoro e la nostra professione. Può essere che io abbia dei timori infondati e mi piacerebbe quindi essere rassicurato.

Ma è mia convinzione che sbaglieremmo tutti se sottovalutassimo il significato di questa delibera, il quadro frammentato di situazioni che abbiamo nel paese; la “questione infermieristica” per l’appunto. Da parte mia ho scritto una lettera all’Assessore alla Salute dell’Emilia Romagna chiedendo la revoca della delibera e l’apertura di un tavolo di discussione presso il Ministero della Salute. Ma penso che ormai sia tempo di aprire una grande discussione nella categoria sul futuro realistico della nostra professione. Penso anche, però, che sia utile aprire da subito il dibattito sull’assistenza nei luoghi di vita nella speranza che il mutismo della categoria e degli infermieri presenti in vari enti (AIR 2014; 33: 2-6) non sia più il risultato di un agire silenzioso dietro le quinte. In una visione di “coevoluzione” delle organizzazioni del lavoro, dei bisogni dei cittadini e quindi delle professioni tutte chiamate a interpretare i loro tempi, ormai si pone con urgenza il diritto dell’infermiere a non essere sfruttato, demansionato, derubato delle sue prerogative e del suo specifico professionale, usato come uno strumento servomeccanico da politiche contabili senza respiro, senza prospettiva e senza progettualità. In questo senso noi denunciamo con forza gli abusi che si stanno perpetrando ai danni della nostra professione, respingiamo l’arroganza di chi pensa di poter decidere sui nostri destini professionali senza interpellarci e rivendichiamo il nostro diritto ad autodeterminarci nel rispetto più completo dell’art 32 della Costituzione e delle normative che ci riguardano.

Andrea Bottega
Segretario nazionale Nursind 

27 giugno 2014
© Riproduzione riservata

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