Quale 2016 per noi infermieri? Vogliamo ancora occuparci di questo irrilevante comma 566?
di Marcella Gostinelli
02 GEN -
Gentile Direttore,
in questo anno lavorativo la cosa che mi ha lasciato più amarezza, come professionista, è il senso di debito verso “i vecchi”, i” diseguali “e verso gli infermieri. Debito in termini di aiuto materiale e affettivo e in termini di gratitudine. Mi dolgo moltissimo di non essere riuscita a riconoscermi in un gruppo di dirigenti uniti con lo scopo di dare un contributo concreto agli infermieri, tutti, per lo sviluppo di una coscienza di categoria. Non siamo Uno e di questo la responsabilità è nostra, di noi dirigenti, di “maggioranza” e di “minoranza”. Di maggioranza perché non abbiamo pensato che a noi stessi, in quanto “Altro” dagli infermieri, di minoranza perché non abbiamo saputo formare una vera e propria opposizione.
Di questo debito, e degli altri che esprimerò più avanti, Direttore, intendo dar conto ai suoi lettori , in parte per facilitare l’elaborazione della gratitudine mia e di altri verso chi ha faticato tanto perché capissimo cosa sarebbe stato meglio fare per creare una coscienza comune, ed in parte anche per renderci più perspicaci nell’individuare persone alle quali, come professionisti della salute, dobbiamo sicuramente qualcosa.
Come Professione dobbiamo molto ai tanti infermieri, così detti di linea, che ogni giorno fanno di tutto perché il malato possa essere il più possibile “servito” nei suoi i bisogni. Riempiono tanti vuoti di pensiero dirigenziale delle diverse istituzioni, senza mai avere da queste una restituzione per quel che di buono fanno. Per questi infermieri chi avrebbe potuto farli evolvere non ha mai fatto nulla, se non limitarsi ad utilizzare, in ogni dove, lo slogan: “l’infermiere è dalla parte del malato” .
E’ uno slogan non vero. Quel malato post moderno che vive in epoca di postwelfarismo, e che si è visto sostituire la giustizia con la carità e il diritto con l’elemosina non è per niente contento di questo e lo dimostra attraverso il contenzioso medico legale quando ha i mezzi per farlo o attraverso la rinuncia alle cure quando non ha alcun mezzo. Questa ultima forma di “protesta” per le implicazioni etiche che ne conseguono, in un Paese civile, dovrebbe far nascere, da sola, l’esigenza di ripensare le attuali forme di tutela restituendo, per incominciare, la funzione progettuale strategica a chi lavora e favorendo una organizzazione che permetta la conoscenza virtuosa del cittadino, malato.
Gli infermieri però non solo non sono chiamati a progettare strategicamente, ma neanche a protestare; non sono, nella sostanza con il malato, cosi come realmente non lo è Cittadinanzattiva e la politica più in generale. Come mai l’Infermiere non protesta se invece dichiara di essere dalla parte del malato? Dire che non protesta per non creare disagio al malato è una bugia che nasconde altro e offende chi ogni giorno cerca di non rendere evidente questa indifferenza del sistema verso il malato e verso chi è solo o diseguale; dire che è solo colpa degli infermieri però è un modo sbrigativo e disonesto di pensare. La nostra storia inizia con atti di generosità, di carità, di dono di sé, in un periodo storico dove l’identità “dell’assistente” era implicita, non espressa, ma c’era.
L’infermieristica era un bel mestiere, tutto veniva offerto in un universo quasi magico perché le sue regole non erano enunciate. L’infermiere all’epoca era libero di essere perché intorno a sé e a ciò che faceva non c’erano “competizioni”. Potremmo dire che l’assistenza era un dono. Oggi, Sloterdijk (1983) direbbe:” I tempi sono duri, ma moderni”, “Noi moderni” siamo realisti, abbiamo enunciato norme e regole e quindi non è più possibile parlare di dono o meglio si ha sempre il diritto di sognarne nella propria intimità, e di operare come se ciò che si fa fosse un dono, ma con la consapevolezza che, nei tempi moderni, con norme esplicite, nel semplice ed autentico donarsi potrebbe esserci l’inganno.
L’inganno è nella rappresentanza della professione, ai diversi livelli, che non rappresenta, non dona, ciò che dovrebbe e potrebbe già essere l’Infermieristica, ingannando chi sceglie la Scienza infermieristica e la studia, chi esercita e la vorrebbe predicare, chi esercita e vorrebbe cambiare e chi esercita e non vuole cambiare perché non ha capito che i tempi sono moderni e duri. Inganna anche il “famoso” cittadino facendogli credere di essere dalla sua parte, quando in realtà, cosi seguitando, dimostra di essere dalla parte del potere conquistato e che niente ha a che fare con lui.
Gli infermieri quindi peccano, in generale, di ingenuità rimanendo fermi sulla responsabilità, sul gesto donato, e non considerano invece che con i gesti e un pensiero politico forte diventerebbero temibili perché, come scriveva Karl Marx nel Capitale,“ il dono non è una cosa, ma un rapporto sociale per eccellenza, rapporto tanto più temibile in quanto desiderabile”. La forza degli infermieri starebbe nel saper cogliere ed operare quel “desiderabile” che oggi volutamente sfugge a chi decide per noi, e non credo per cattiveria. La forza degli infermieri starebbe nell’esserci nel “mentre del desiderio”; infatti, essere conseguenti al bisogno del malato è già tardi per una professione intellettuale prescrittiva di prossimità come quella infermieristica.
Il vero dono è libero, perché sta nel pensiero strategico. L’infermieristica rispondendo al desiderio di prossimità del cittadino, nella sua comunità, donerebbe nuove forme di universalismo e quindi di tutela della salute. Con l’infermiere nella comunità si emancipa il concetto di accettazione in accoglienza, si inizia a passare dal “concetto di territorio a quello di comunità” e soprattutto si provvede a garantire “l’universalismo locale”, (Cavicchi,2012).
Sono, quindi, grata ai colleghi consapevoli, attenti e sicuri come, per esempio,
Maicol Carvello. Condivido
ogni rigo della sua lettera. Acquisire nuove competenze dovrebbe voler dire “fare quello che già dovremmo fare e non facciamo”.
L’infermiere, quello vero, dovrebbe riunirsi con altri infermieri, veri e non veri, nel proprio collegio, prenderne intellettualmente “possesso” e tutti insieme in quel luogo progettare il loro possibile, conoscere i criteri che permettono ai soliti di progettare e scegliere per loro, e là dove serve cambiarli, trovarne di nuovi per poter scegliere chi deve rappresentarli, invece che lasciare che tutto accada. Io, per rispondere a
Piero Caramello, sto da questa parte. Il Collegio di Firenze ha già iniziato ad andare nelle aziende per conoscere i suoi iscritti e questi a conoscere il loro collegio.
Un altro senso di debito è nei confronti dei “Vecchi”; si, chiamiamoli senza ipocrisie vecchi e non grandi anziani o terza età, perché l’indifferenza che mostriamo verso essi si esprime meglio con il termine vecchi. In questo anno ho avuto occasione di frequentare per lavoro molte strutture per “vecchi” in Italia e si capisce subito lo spreco, l’anti economia direbbe Cavicchi, nel sottoutilizzo di quelle strutture e del capitale Infermieristico; si capisce anche che per il nostro Paese la vecchiaia è un disvalore
In quei luoghi, forse non tutti, l’uomo anziano sembra essere colui che non ha più la possibilità di essere ciò che è o può divenire. Non sembra essere una persona che ha avuto, ha e potrà avere una sua vita.
La cultura che l’essere anziano può interiorizzare in quel genere di strutture è quella di chi vive in una condizione irreversibile lo stato di “anziano ricoverato”.
La differenza fra un anziano ricoverato in una struttura per “vecchi”, dove si agisce con la cultura dell’irreversibilità dell’attuale stato per l’anziano e uno ospitato in una struttura dove si opera con la cultura della reversibilità della condizione dell’ospite, sta nella percezione, per quest’ultimo, di poter scegliere anche se sa che ciò che sceglie potrà non essere la scelta. Avere la sensazione di poter scegliere la propria condizione è un privilegio dell’uomo libero e dovere etico di chi lo aiuta a vivere è favorire la scelta. L’anziano non è fragile di per sé, diventa fragile quando lo facciamo diventare vecchio. Questo punto è importante per noi infermieri perché se l’uomo non più giovane parte fragile è facile che diventi vecchio e, per la cultura del nostro Paese, non più degno di attenzione.
Onestamente, di fronte a questi mancati pensieri progettuali il comma 566 è, per me, davvero irrilevante. Mi occuperei volentieri di altro.
Marcella Gostinelli
Infermiere - Dirigente sanitario, Centro Oncologico Fiorentino
02 gennaio 2016
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