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Un'idea di assistenza infermieristica

di Dario Valcarenghi

30 APR - Gentile direttore,
“cos’è e cosa non è assistenza infermieristica” è la domanda fondamentale che si era posta Florence Nightingale a metà dell’800 e alla quale aveva dato una risposta tramite la sua azione. Tre elementi ritengo siano fondamentali nella sua esperienza: avere un’idea di assistenza, saper intervenire su un problema sanitario vissuto dalla comunità del tempo e avere la possibilità di agire in autonomia per risolverlo.

Lei aveva maturato la concezione che l’assistenza infermieristica (il nursing) consistesse nel porre le persone nelle migliori condizioni possibili affinché la “Natura” potesse favorirne la guarigione dalle malattie. Le azioni attuabili erano soprattutto quelle di tipo igienico (personale e dell’ambiente), nutrizionali, di mobilizzazione e così via. L’efficacia di questa sua concezione poté dimostrarla durante la guerra di Crimea (1853-1856), intervenendo con un gruppo d’infermiere negli ospedali da campo inglesi in cui vi erano altissimi tassi di mortalità fra i soldati che, feriti in battaglia e sottoposti a intervento chirurgico, morivano poi per le infezioni subentrate durante il loro ricovero. In quella situazione aveva un suo evidente riscontro il detto: “intervento riuscito, ma paziente deceduto”.

Con la sua azione e applicando la sua concezione dell’assistenza infermieristica, F. Nightingale, insieme alle altre infermiere, ridusse di molto (dal 42% al 2%) il tasso di mortalità fra i soldati inglesi feriti e lo documentò attraverso grafici di sua ideazione (detto dei “cunei”). Non a caso lei è anche ricordata come figura significativa in alcuni libri di storia della statistica.

Il terzo elemento di quella vicenda che trovo importante, oltre a quello di avere un’idea di assistenza (1) e di saper intervenire concretamente su un problema sanitario del tempo (2), è l’aver potuto agire in ampia autonomia. F. Nightingale riuscì ad ottenere tale importante condizione grazie al supporto ottenuto dal Ministero della guerra inglese. Senza quel supporto, difficilmente avrebbe potuto imporre la sua presenza e la sua azione ai medici militari operanti in Crimea (essendo fra l’altro anche donna). Nella relazione fra medici e infermieri, alcuni problemi ci accompagnano quindi da molto tempo. Grazie comunque ai risultati della sua azione (“evidenze?”) ottenne un grande credito pubblico e vari finanziamenti per aprire le prime scuole moderne di nursing. L’importanza del suo pensiero e della sua azione trova altra conferma nella decisione di scegliere il giorno e il mese della sua nascita (12 maggio 1820) come data per celebrare ogni anno la “giornata internazionale dell’infermiere”.

Dalla sua esperienza possiamo ancora oggi apprendere che l’assistenza infermieristica per essere efficace ha bisogno di avere una chiara idea di se stessa, dei bisogni/problemi di salute su cui concretamente agire e avere la possibilità di farlo assumendosene la responsabilità diretta.

Questi stessi principi, facendo ovviamente le debite differenze con il grande ruolo storico avuto dalla Nightingale, sono quelli che abbiamo seguito e applicato in epoca più recente (anni 90) per avviare un’esperienza di assistenza infermieristica domiciliare in due comuni dell’area milanese. L’idea di assistenza era quella desunta da Virginia Henderson, per cui lo scopo che ci si prefiggeva entrando in casa di una persona (oltre a quello di garantire le eventuali prescrizioni mediche), era quello di comprendere quale fosse il suo livello di autonomia nello svolgimento dei suoi bisogni fondamentali di vita (mangiare, bere, dormire, muoversi, ecc.), quale potesse essere il tipo di deficit eventuale manifestato (di forza, di volontà, di conoscenza) e quindi quali potessero essere gli interventi correttivi più opportuni e realistici per lui (azioni compensatorie di assistenza, interventi educativi, interventi di sostegno e/o supporto a lui e alla sua famiglia). Questo nostro servizio era in risposta a una domanda che proveniva da famiglie che avevano in casa: anziani con patologie croniche e non autosufficienti, malati in coma (anche bambini), malati oncologici in fase avanzata e, in un secondo tempo, anche malati di AIDS.

Da subito ci siamo posti come un servizio trasversale, non limitato a una specifica patologia o specialità medica, in quanto centrato a rispondere in primis ai bisogni di assistenza infermieristica, comuni a diverse categorie di pazienti, e interpretati in base all’idea sopra descritta. Di ogni persona era definito un piano d’intervento che era modulato in funzione dell’evoluzione dei problemi dell’assistito e della capacità della sua famiglia di farsi carico di alcune attività d’assistenza. La famiglia, se consenziente, diventava allora parte attiva del processo di assistenza definito per (e quando possibile anche con) il paziente.
 
Non eravamo gli unici a intervenire su quelle persone perché in molti casi si attivava anche la rete professionale a loro disposizione (medici di medicina generale, servizi sociali comunali, volontari, …) o la rete di relazioni che come infermieri avevamo a livello ospedaliero (medici specialisti, altri infermieri esperti, fisioterapisti, psicologi, ecc.). Il risultato finale era quindi il frutto di una rete cooperante di diversi professionisti (e non) che s’integrava sul caso specifico e senza predefiniti rapporti gerarchici fra le diverse professioni. In tale “organizzazione liquida” gli infermieri avevano una grande libertà di azione e svolgevano anche un’importante funzione di attivatori/integratori delle reti informali e professionali.

Tale modello, avviato da noi infermieri e inizialmente basato su una buona dose di disponibilità volontaria dei vari professionisti, dopo qualche anno e con l’apporto di altre importanti esperienze, è stato fatto proprio dalla Direzione dell’Azienda Sanitaria Locale. Il punto di forza del nostro approccio era di essere centrato sulla gestione del caso, sull’integrazione flessibile di varie competenze (professionali e non) e sul coinvolgimento del paziente e delle sue risorse familiari. Le successive scelte politiche regionali hanno purtroppo spinto nella direzione di valorizzare le prestazioni professionali computabili piuttosto che la gestione globale del caso e ciò ha portato a mettere in difficoltà tale tipo di servizi.

Nel nostro intervento le prestazioni professionali erano un mezzo per raggiungere un fine e in molti casi erano condivise con il care-giver del paziente. A molti di loro (sempre se consenzienti e affidabili) abbiamo trasmesso alcune conoscenze e/o tecniche infermieristiche (medicazioni di lesioni da pressione, gestione di stomie, somministrazione d’insulina, tecniche di mobilizzazione semplice, consigli alimentari, ...). In tal modo era possibile mantenere il malato a casa, a costi accettabili, attraverso la sinergia creatasi fra la nostra professionalità e la contiguità con il malato del suo care-giver. Noi portavamo il know-how relativamente alla gestione del caso e alle tecniche insegnate (valutazione periodica, modificazione del programma, intervento in situazioni particolari o richiesta di altre consulenze). Loro rendevano possibile nel contesto domiciliare la continuità assistenziale (ripetizione giornaliera delle tecniche, frequente mobilizzazione semplice, alimentazione adeguata, ecc.), senza la quale anche il nostro intervento professionale avrebbe perso di efficacia.

In tutto questo, i vantaggi maggiori erano per le persone che avevano bisogno di quelle cure. In quella situazione non ci siamo mai sentiti espropriati di una “esclusività” professionale, perché è stata una nostra consapevole scelta il delegare alcune tecniche nell’interesse di chi dovrebbe sempre essere al centro dei nostri pensieri e della nostra azione professionale. Se ci fossimo irrigiditi a difesa di una “esclusività” professionale e avessimo scelto di fare tutto e solo noi, il risultato finale sarebbe stato quello di creare maggiori difficoltà alle famiglie, avere più ricoveri ospedalieri di quei pazienti (non potendo garantire loro la nostra presenza costante) e meno persone assistibili a casa (dovendo concentrare le nostre limitate risorse solo su alcuni di loro).

Alla luce di questa nostra esperienza sto seguendo con qualche preoccupazione il dibattito che si è aperto sui servizi per l’urgenza/emergenza (118). La difesa aprioristica e rigida di esclusività professionali rischia di creare più problemi di quanti ne possa risolvere e per servizi che in molte realtà hanno dimostrato di saper lavorare con alti standard di qualità e sicurezza per le persone assistite. Sono relativamente sicuro che in esse non vi siano confusioni di ruoli e responsabilità ma forme di collaborazione costruite sul campo e nell’interesse delle persone da soccorrere. Linee guida e protocolli sono certamente necessari, ma evitiamo di definirli come se fossero gabbie rigide che impediscano poi ai gruppi multi-disciplinari che operano in prima linea di essere anche “autori” cioè professionisti in grado di massimizzare i servizi per la loro comunità di riferimento, trovando le migliori soluzioni possibili ai problemi (organizzativi, professionali, di relazione) che in ogni ambiente locale si possono presentare. Una solo tipo di scarpa, anche se perfetta, non può andare bene per piedi diversi.

Come nell’esperienza della Nightingale, anche nella nostra esperienza di assistenza domiciliare, gli elementi fondamentali sono stati: l’avere un’idea di assistenza in testa, il farsi carico responsabilmente e direttamente di problemi di salute esistenti presso la nostra comunità di riferimento, la possibilità di agire con ampia autonomia pur ricercando sempre la collaborazione di altre professionalità in base alla competenza maggiormente necessaria per il paziente in un dato momento.

Fra questi tre, quello che vorrei ora porre in evidenza e che ritengo fondamentale per gli infermieri, è l’avere una chiara idea di assistenza nella propria mente (e saperla comunicare agli altri). Questa idea è quella che dovrebbe orientare l’azione professionale, così come una bussola consente ai naviganti di tracciare la propria rotta, anche in mari diversi. Nei corsi di formazione di base, quest’aspetto si traduce spesso nella presentazione di vari modelli teorici dell’assistenza infermieristica, ma il rischio che avverto è che in molti casi questo modo di procedere non riesca a far interiorizzare agli studenti una chiara idea di “cosa sia e cosa non sia assistenza infermieristica” e, quando vi riesca, non lo faccia in modo sufficientemente consolidato da riuscire a orientarli poi nei diversi contesti operativi.

Un’idea guida, che abbia la forza di orientare in modo consapevole l’azione professionale, non può nascere dalla giustapposizione di teorie, di materie e di discipline diverse senza avere una disciplina unificante. La disciplina infermieristica ha necessità dell’apporto delle conoscenze di altre importanti discipline (medicina, psicologia, pedagogia, economia, …), ma deve poterle e saperle integrare all’interno della propria visione delle persone, dei gruppi e delle comunità di cui si prende cura.

Questa idea di assistenza deve ovviamente essere aggiornata rispetto ai tempi, all’evoluzione delle conoscenze e dei bisogni di salute delle persone. Non può certamente più essere quella di F. Nightingale (e forse neanche quella di V. Henderson), ma vi deve essere. In caso contrario il rischio sarà di formare dei professionisti dall’identità incerta e ciò potrebbe essere un elemento che favorisce la sovrapposizione di ruoli con altri professionisti, medici in primis (ma non solo).

Se non ho una chiara idea di cosa sia l’assistenza infermieristica, sotto le pressioni economiciste dell’attuale fase attraversata dal nostro SSN, tenderò a delegare ad altri attività del mio “core” professionale per assumerne eventualmente altre, storicamente eseguite da altre professionalità e che mi appaiono più prestigiose o gratificanti. Come novelli “Faust” venderemmo anche noi la nostra “anima professionale” ad alcuni “demoni” del momento. La conseguenza sarebbe inevitabilmente quella di avere un deficit di cure infermieristiche per chi ne abbia realmente necessità.

Alla luce di quanto scritto in precedenza, non sto ovviamente difendendo dei confini professionali rigidamente stabiliti. Vi sono alcune attività professionali che possono essere concordemente rimodulate fra le diverse professioni a seguito dell’evoluzione delle conoscenze professionali e tecnico-scientifiche e sempre nell’interesse di chi ne dovrebbe poi usufruire. Questa ridefinizione concordata potrebbe essere però facilitata, da parte infermieristica, dalla consapevolezza della propria identità professionale, mentre da parte dei medici andrebbe forse recuperato un senso del limite e una visione leggermente meno “tolemaica” del loro ruolo nei servizi per la salute.

La comunità professionale infermieristica, con la sua leadership, ha ancora oggi la grande responsabilità di elaborare e proporre un‘idea di assistenza adatta ai bisogni di salute dei nostri cittadini e sufficientemente chiara per orientare il nostro agire quotidiano nei diversi contesti clinici e nei diversi ambiti d’intervento. Ogni agenzia di formazione infermieristica (università) dovrebbe avere un’idea di assistenza come suo fondamento e con ciò non intendo una teoria, spesso elaborata in ambienti culturali diversi, assunta come dogma, ma un’idea relativamente semplice e chiara che si dimostri efficace nella prassi professionale quotidiana. Non sarà comunque sufficiente avere una tale “stella polare” se poi non si riuscirà a sviluppare attorno ad essa precisi metodi, specifici contenuti e adeguati strumenti di risoluzione dei bisogni di assistenza infermieristica presenti nelle persone e nelle comunità.

Non basta, infatti, affermare di “aiutare la persona a essere autonoma in alcune attività di vita quotidiana” (così come in altre attività), bisogna poi dare sostanza a quest’affermazione attraverso una serie di azioni coordinate a quel fine e adatte per quella particolare persona. E’ attraverso l’approfondimento e la strutturazione di queste conoscenze, attorno ad un’idea guida di assistenza, che possiamo rendere più efficace la nostra azione professionale e più chiaro il nostro ruolo al servizio di una comunità.

Questo modo di procedere non risolve i nostri problemi attuali, che richiedono altre forme immediate d’intervento e/o di difesa (che altri meglio di me sanno proporre), ma lo ritengo comunque essenziale per affermarsi nel tempo come una disciplina matura ed è una responsabilità che abbiamo soprattutto noi infermieri anche attraverso il confronto con gli altri, che potrà esserci di grande aiuto per evitare di essere anche noi troppo autoreferenziali o tolemaici.
 
Dario Valcarenghi
Infermiere ricercatore


30 aprile 2016
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