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Per curare la sanità non basta un “medico pietoso”

di Gemma Brandi

17 MAR - Gentile direttore,
si continua a parlare del fatto e del rischio che il diritto alla salute cessi di essere un diritto praticabile. C’è chi su questo scrive libri, chi li commenta, chi organizza “promettenti” megameeting nazionali. Più leggo le argomentazioni di questi signori, più mi pare che il desiderio non sia quello di risolvere il problema di una disuguaglianza già in piedi, bensì di mantenere l’impianto vigente, nell’impossibile rincorsa alla coesistenza di capra e cavoli, di botte piena e moglie ubriaca.
 
Si parla di sintomi e non della eziopatogenesi di una malattia che di questo passo potrebbe diventare incurabile. Quando a Bob Marley venne diagnosticato un melanoma all’alluce, ci fu chi ne consigliò l’amputazione, chi propose soluzioni meno impegnative per un uomo che amava cantare e giocare a calcio.
 
Di consiglio in consiglio niente venne fatto e questa attesa passiva di Godot decretò la rapida e prematura fine di un giovane che celebrava l’epica umana con rara dolcezza. Sono dell’avviso che occorra estirpare il cancro che affligge la sanità pubblica, riconoscendo le cause della sofferenza decretata non da seccanti gufi, ma dai portatori di svariare sofferenze che si trovano a chiedere aiuto. Ciò non significa che, mentre l’alluce soffre, altri organi del sistema non funzionino bene, taluni benissimo, come accade nei luoghi, qua e là nel Paese, dove si continuano a ricevere buone e anche ottime risposte di salute.
 
Sarebbe nondimeno sbagliato tradurre tali risultati in un plauso collettivo al buon funzionamento del sistema. I segnali vanno presi sul serio, operando un esame di realtà, con diagnosi, prognosi e terapia del caso.

Veniamo all’allarme ovunque registrato, al sintomo emergente: riduzione quantitativa delle risorse e dunque impossibilità di rispondere ai LEA. Intanto occorre dire fin da subito che ci sono LEAR, cioè LEA regionali in base ai quali vengono riconosciuti diritti di risposta diversi -rispetto ai LEA nazionali- ai residenti in quella certa area del Paese: atto di disuguaglianza deciso dalle istituzioni politiche, non basandosi su priorità sanitarie.
 
Entra in gioco, in tal modo, anche una rimodulazione dell’uso delle risorse: da una parte metto, dall’altra tolgo. Il budget, infatti, pure elevatissimo, non è estensibile a dismisura. Il problema è che, su tali decisioni politiche, i medici non sono stati chiamati ad aprire bocca e, se lo sono stati, si sarebbero limitati a esprimere un assenso, a quanto pare inevitabile. Questo accade in virtù di un congegno di rappresentanza sempre più corporativo e sempre meno obiettivo, in altre parole sempre meno fondato sulla preparazione e sulle capacità documentabili. La causa della dissoluzione del bene comune, in sanità, muove dalla decisione di mettere in un angolo i contributi di sapere e di organizzazione che ne discendono, preferendo a questi una burocratizzazione atecnica che ha ormai ovunque il sopravvento sulla clinica.

E’ il sistema, quindi, che va modificato, dando da una parte la più ampia possibilità di parola e di critica agli addetti ai lavori, anziché limitare simili contributi, stimati importuni in un organismo diventato sempre meno tecnico; dall’altra reclutando una classe di esperti all’altezza delle responsabilità assegnate e valutando con criteri obiettivi le prassi e i risultati, in modo da ribaltare le azioni migliori sui servizi meno efficaci, per il tramite di un proficuo contagio.
 
Se il sintomo che affiora è una riduzione quantitativa delle risorse, la causa è rintracciabile nell’abbattimento qualitativo di queste, con perle di sopravvivenza sempre più occasionale, e nella sordità alle voci che dalle pratiche provano a dire qualcosa, quando non nel tentativo di metterle a tacere.

Del pari, per “il sintomo” spesa farmaceutica in costante impennata, non sarà impedendo al medico di ricorrere a questo o quel presidio che si troverà una via di uscita, mentre occorre pensare alla causa prima di una temuta corruzione diffusa: avere dato in appalto alla industria chimica la ricerca in tutti i settori sanitari, considerando quest’ultima un lusso, anziché il mezzo per raggiungere l’obiettivo di reperire cause e cure delle malattie. Terapie sempre meno sintomatiche e sempre più eziopatogenetiche dovrebbero costituire la mission di un sistema sanitario etico che parta da osservazioni esperienziali per produrre vera teoria e vera cura.

In base alla prospettiva qui enunciata e nella speranza che l’impianto universalistico non faccia la fine del povero Bob Marley -prognosi infausta che resta possibile, se chi pretende di risolvere il problema continuerà a parlare d’altro e ad essere ascoltato- sono da consigliare i seguenti rimedi:
- restituzione della medicina oggi amministrativa al suo compito sanitario e dunque deburocratizzazione/depoliticizzazione delle scelte tecniche -che farebbe risparmiare moltissimo e orienterebbe al meglio la spesa anche in termini di priorità e LEA;
- reclutamento etico fondato su norme di facile lettura e applicazione, sempre che si voglia;
- ripristino di una ricerca pubblica che punti alle cause più che ai sintomi delle malattie da curare.
 
Sembrerà utopico a chi preferisce far credere al Bob Marley di turno che bastino pochi aggiustamenti, e invece è il modo per cominciare a curare davvero il sistema allo scopo di mantenerlo in vita, anche se questo costasse, a chi oggi e da tempo ne tiene le redini, la rinuncia a qualche pretesa di troppo: continuare a giocare a pallone in barba all’interesse dei più. 
 
Gemma Brandi
Psichiatra psicoanalista
Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto


17 marzo 2018
© Riproduzione riservata

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