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Quei numeri a vanvera sulla malasanità

di Stefano Canitano

03 GEN - Gentile Direttore,
leggo sul blog di Repubblica di Guglielmo Pepe, giornalista che si occupa da anni di Sanità, talvolta sul proscenio della notizia clamorosa, sia in bene sia in male purché faccia “notizia” (e si capisce, quel mestiere include la necessità di "stupire" per interessare), un intervento a proposito dello spot di "Obiettivo risarcimento" del quale si parla da diversi giorni e sul quale la mia personale posizione è in linea con quella nota di Antonio Magi, Presidente Omceo di Roma, di Filippo Anelli Presidente Fnomceo e del Ministro della Salute Giulia Grillo.
 
Il giornalista sostiene che lo spot non sarebbe altro che una informazione necessaria a tutela di chi ha subito un danno. E fin qui si tratterebbe solo di una, discutibile, opinione. Il problema però consiste nel fatto che a questa affermazione ne seguono una serie che definire gravi e irresponsabili è del tutto eufemistico. 
 
Mi spiego meglio.
Guglielmo Pepe azzarda a ipotizzare che l’archiviazione delle cause in ambiente sanitario (ben  circa il 98% di quelle per omicidio colposo e circa  95% di di quelle per lesioni gravi), non avverrebbe per assenza di colpa o temerarietà della causa intentata ma per il fatto che "la stragrande maggioranza delle persone che si ritiene colpita da Malasanità non solo non ottiene quello che “gli spetta”, ma di solito perde in tribunale. Perché dimostrare causa (errore medico o simile) ed effetto (il danno subìto), è estremamente difficile da parte di chi si ritiene vittima".
 
Insomma, come certa pubblicistica, si erge a giudice stabilendo in via ultimativa che il danno è solitamente e ovviamente per grave colpa degli operatori ma che, per pastoie giudiziarie, questo non venga riconosciuto, e poco conta il ruolo del magistrato di turno e dei suoi  collaboratori periti. Oltre a trascurare il troppo spesso scavalcato obbligo di conciliazione prima di adire le vie legali.
 
D'altronde è sotto gli occhi di tutti che ormai il rispetto delle istituzioni non sia che un dettaglio o un ingombrante orpello, ma sembra che qui si esageri davvero, delegittimando l'operato ella parte giudicante.
 
Si va però anche oltre. 
Per argomentare la "necessità" della pletora di processi per "malasanità" Pepe non si perita di accennare alla letteratura scientifica in merito, della quale dimostra di non cogliere l'essenza, come fece prima di lui Beppe Grillo - comportandosi in antitesi a Re Mida a proposito di un argomento chiave come quello della sovradiagnosi - e si spinge ad affermare: "Se invece si vuole diffondere nebbia sull’esistenza di decine di episodi giornalieri che provocano la morte dei pazienti, allora lo spot è soltanto un pretesto. Come sappiamo, tutte le strutture specializzate nelle ricerche sulla salute pubblica concordano sul fatto che sono migliaia e migliaia, ogni anno, le morti evitabili”.
 
Decine di decessi giornalieri? Migliaia e migliaia ogni anno? Di morti causati per colpa medica in Italia? Ha idea l'autore di quante persone vengano trattate dal SSN? E di quante siano vittime effettive e accertate di errore sanitario?
 
Capitò con un altro noto giornalista sanitario, incline anch'egli alla notizia clamorosa imposta dal mestiere, al quale avevo parlato del rapporto, fondamentale per la nascita della cultura della sicurezza, "To err is human" di James Reason. La nostra conversazione determinò che venisse indotto a un titolo che si commentava da sé - "Mille morti l'anno nel Lazio"- trasformando in realtà locale ed effettiva la stima di una stima di una stima calcolata negli USA per gli USA.
 
Così inevitabilmente si inquina un dibattito serio sulla sicurezza delle cure. E sembra in realtà che il tema non sia la sicurezza delle cure o il giusto risarcimento del danno in caso di colpa, ma la "necessaria" ricerca dei colpevoli. Così si promuove la medicina difensiva, che già produce 10-13 miliardi di spesa inappropriata ogni anno e che espone i pazienti a rischi reali di sovratrattamento, di interventi non necessari eseguiti al solo scopo di dimostrare "che si è fatto tutto il possibile", di incremento di prestazioni pseudo-miracolistiche, e soprattutto si rischia di soddisfare bisogni non reali ma semplicemente indotti dalla domanda, spesso impossibile da soddisfare, di certezza della guarigione, confondendo un contratto di mezzi con un contratto di esito.
 
Il messaggio sbagliato in questi casi tende a esprimere un concetto inverso rispetto alla realtà, che invero consiste in una lotta costante contro la malattia e la morte (inquilina quest'ultima ahimé di casa nelle strutture sanitarie, ci piaccia o no), ma nella quale la tecnologia disponibile, la cultura medica, la diligenza, le organizzazioni efficaci, anche se presenti, non sempre sono sufficienti a salvare una vita. Si diffonde così l’idea secondo cui non è necessario organizzare procedure certe e percorsi sicuri, e che tutto il tempo che deve essere speso per garantire sicurezza è sprecato. e che invece tutto sarebbe nelle mani del sanitario di turno, o un "luminare" salvavita o un reprobo negligente e trascurato da mettere eventualmente alla gogna. E che ci si debba piuttosto concentrare sulla ricerca dei colpevoli e sulle richieste dei conseguenti risarcimenti, giuste solo talvolta, ma che contribuiscono purtroppo con tutti gli altri contenziosi a intasare le aule di tribunale.
 
Per fortuna oggi la recente legge 24/17 Gelli - Bianco promuove la serenità lavorativa degli operatori sanitari (medici, infermieri, tecnici, ecc.), paritariamente caricati nelle responsabilità delle cure, e rimette al centro la cura del paziente. Soprattutto rimette al centro la capacità delle organizzazioni di proteggere dagli errori i pazienti e gli operatori. Come è noto il contenzioso crescente produce, fra gli altri danni, anche una forte crisi vocazionale delle specialità più “a rischio” (neurochirurgia, cardiochirurgia e tutte le branche nelle quali l'esito è ancor meno certo di quanto già non sia nella comune pratica clinica). Quando nessun sanitario avrà più voglia di dedicarsi a procedure salvavita ad alto rischio di insuccesso per non finire sotto processo, come faranno i pazienti che ne avranno bisogno?
 
In questa ottica, l'Ordine dei Medici di Roma  ha avviato un proficuo percorso di collaborazione con i giornalisti del settore (professionisti seri) esperti di errore sanitario, di rischio clinico, di morti evitabili e di morti inevitabili, che evitano di usare la parola "malasanità" e che si dedicano a capire i processi di cura e non a istruire processi di piazza, con condanne predeterminate.
 
L’idea è che incontrare i giornalisti restituisca fiducia nella possibilità che prevalgano la collaborazione e la ragionevolezza sullo scandalismo, per ricostruire la necessaria alleanza e reciproca fiducia fra istituzioni, operatori, cittadini, avvocati, magistratura e stampa, per una sempre maggiore efficacia e sicurezza delle cure. Ma anche per evitare che statistiche maneggiate senza l'opportuna cautela o il giusto criterio e le enfatizzazioni scandalistiche avvelenino il clima con l'unico risultato, e la relazione fa le due cose è chiara e opportuna, di produrre anche la crescente violenza sugli operatori alla quale assistiamo quotidianamente. 
 
Stefano Canitano 
Componente del Consiglio Direttivo Omceo di Roma e provincia

03 gennaio 2019
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