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Alzheimer. I segreti delle "ceramìdi", biomarker e bersaglio terapeutico


Non solo potrebbero aiutare a riconoscere la malattia già alle sue primissime fasi, ma potrebbe in futuro anche essere usate per tentare di ritardarne e forse addirittura prevenirne l’insorgenza. Lo studio che ne parla pubblicato su Neurology.

26 LUG - Sono biomarker per l’Alzheimer, ma allo stesso tempo anche un possibile target terapeutico, le molecole di cui si parla in uno dei più recenti studi della Mayo Clinic e della Johns Hopkins sull’argomento, pubblicato su Neurology: si tratta delle ceramìdi, famiglia di molecole lipidiche che si trova nel sangue, associata a infiammazioni e morte cellulare, che potrebbe aumentare il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer.
 
Per dirlo, gli scienziati che hanno condotto la ricerca hanno arruolato un campione di 99 donne senza segni di demenza, di età compresa tra i 70 e i 79 anni, che hanno diviso in tre gruppi a seconda che i livelli di ceramìdi nel loro sangue fosse alto, medio o basso. Per nove anni i ricercatori hanno poi monitorato le condizioni di salute delle donne, riportando che 27 di loro avevano sviluppato nel corso degli anni demenza, e di queste a 18 era stato diagnosticato il morbo di Alzheimer. Andando a confrontare il quadro clinico delle donne con il livello registrato di ceramìdi nel siero sanguigno, gli scienziati hanno così dimostrato che quelle che presentavano il biomarker in grandi quantità avevano una probabilità 10 volte maggiore di sviluppare la malattia, rispetto a chi ne aveva basse concentrazioni. Analogamente, a confronto con lo stesso campione, chi era stata inserita nel gruppo mediano correva un rischio otto volte maggiore di vedersi diagnosticato l’Alzheimer nell’arco dei 10 anni.
Ma il marker può essere usato anche come target, secondo i ricercatori che l’hanno analizzato. “È per questo che i risultati sono importanti: identificare un indicatore accurato per l’Alzheimer già agli stadi iniziali, e che tra l’altro come questo è poco costoso e facile da trovare – potrebbe significare arrivare finalmente a cambiare il paradigma della lotta al morbo”, ha spiegato Valory Pavlik, ricercatore allo Alzheimer's Disease and Memory Disorders Center del Baylor College of Medicine di Houston. “Uno strumento di questo genere ci permette di ritardare e forse prevenire del tutto l’insorgenza dell’Alzheimer, invece che semplicemente di riconoscerlo”.
Chiaramente ci sarà bisogno di confermare questi risultati, prima di procedere con l’idea dei ricercatori. Che tuttavia sono ottimisti per il futuro. “Secondo le stime la prevalenza globale dell’Alzheimer potrebbe addirittura raddoppiare ogni 20 anni, a partire da oggi e fin quando ci è possibile immaginare”, ha concluso Pavlik. “Proprio per via dell’urgenza che ci si presenta nel risolvere questo problema abbiamo bisogno di trovare modo di scoprire, prevenire e trattare la malattia. Questa ricerca potrebbe essere proprio un passo in questo senso”.

26 luglio 2012
© Riproduzione riservata

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